L’eterna verità ...nulla a che meravigliarmi se ”l’essere” meccanico - tecnologico mi conducesse in una nuova realtà, ma tanto mi farebbe se dall’infinito astratto mi giungesse una nuova ed eterna verità!

Alessandro Masi
Alessandro MasiIl Profeta delle Forme
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C’è un tempo unico, un insieme, un filo genetico che tiene legata dall’inizio alla fine tutta la produzione artistica di Bruno Di Pietro, quasi fosse una traccia, una cifra individuale che fa di tutte le sue opere un unico racconto, una raccolta strutturata, esplicita e coerente, come avrebbe detto il semiologo svizzero Ferdinand de Saussure. Tuttavia questo repertorio appartiene più alla semiologia, mentre invece qui vorrei mutuare il discorso con le parole di un altro grande, il saggista francese Gilbert Durand, parlando di strutture antropologiche di un immaginario primario, fitto di archetipi, di intervalli segnici, di lineamenti primordiali, di grafie che conciliano e si riconciliano nello spazio di un tempo sintetico, che sottendono la genesi della forma come un’epifania del racconto, che racchiudono l’infinito nell’apparenza del tutto finito. Si tratta difatti, di comprendere, al di là dei racconti e dei temi, quelli che sono stati gli archetipi primari del suo linguaggio, i punti perimetrali entro cui Di Pietro ha agito, operato lungo il corso di un’intera esistenza, messo in scena il suo dato prospettico. Mi spiego meglio per non essere frainteso: Bruno Di Pietro è un artista con una lunga storia alle spalle che inizia dai lontani anni ’60 all’ombra di grandi maestri come Pompeo Borra e che matura con il passare dei decenni (anche sul piano internazionale con i suoi frequenti viaggi) in un percorso intimo sempre più originale e distinto dagli altri grazie alla sua ansia di sconfinamento. Come tanti, all’inizio, Bruno Di Pietro ha dipinto figure semplici, forme naturali, animali, alberi, paesaggi e più in là si è perfino misurato con l’archeologia e la mitologia classica, lasciando tuttavia dietro di sé sempre una scia filamentosa, una cifra, un segno che lo ha reso riconoscibile a tutti. La sua stretta logica di incisore (sviluppata virtuosamente a Parigi, tanto da essere chiamato il Dürer italiano), la mano forte consumata a maneggiare il bulino, la capacità sviluppata di narrare molto con poco, di occupare lentamente lo spazio con dinamismo, di costruire architetture di gesti con sapiente equilibrio, lo ha fatto crescere e di molto. La disciplina severa dell’incidere, il rigore del segno, l’attenta esecuzione dei processi di stampa, la linearità ascetica delle forme, hanno fatto del suo percorso nell’arte un viaggio quasi iniziatico. Ed è per questo che, ricomponendo tutti gli elementi tematici pregressi, mi vien da dire, che Bruno Di Pietro ha sviluppato negli anni, in una Gelstat unitaria e complessiva, i sogni adolescenziali più emergenziali, tirando fuori i suoi segni distinti come per una patologia originariamente confusa tra una fine temuta e allo stesso tempo desiderata, banalizzandola, negandola, sfidandola e giocando la sua partita d’artista come in una roulette russa, sulla scia di un’indifferenza emozionale e un freddo calcolo probatorio (Eugenio Borgna). Attratto dalla sua personalità dicotomica Bruno Di Pietro è anche poeta, cosa che all’apparenza suona come una contraddizione per uno come lui, ma che tale non è. Il poeta russo Josip Mandel’Stam costruiva i suoi sonetti con assoluta precisione matematico-chirurgica; egli ripeteva i suoni lirici come un orchestrale, batteva il tempo delle sue parole come un direttore d’orchestra, nutrendosi di fuoco ma sputando acciaio. Processo similare adottato anche da Bruno Di Pietro nel suo fare artistico, quel modo in cui incaglia i suoi racconti nella temperie musicale e che nel contempo li ordina con rigore ingegneristico come fa il compositore con le note distribuite sullo spartito. La sua pittura è metafisica come quella di Mondrian, ma leggiadra come quella di Legèr; distribuisce lo spazio per masse sinfoniche come Malevič, ma poi ironizza il tempo come Depero: è uno Schönberg e uno Stravinskij insieme. In altre parole, Bruno Di Pietro vive il rischio della pittura con la consapevolezza della caduta e della salvezza, della finitudine del gesto e dell’ampio orizzonte a cui destinarlo, del tempo finito e quello che potrebbe ancora proseguire verso un Altrove. Per dirla con Gaston Bachelard, il tempo è una realtà racchiusa nell’istante e sospesa tra due nulla: ecco perché ritrovo in questa pittura le ragioni primarie di una metafisica compressa, di un’economia dell’essere presente e assente, dell’agire fuori e dentro di sé. “Il tempo – scrive ancora lo scienziato-antropologo francese Bachelard – potrà senza dubbio rinascere, ma dovrà prima morire: non potrà trasportare il suo essere da un istante all’altro, per farne una durata”. E allora veniamo alle opere dell’oggi, quelle che Bruno Di Pietro presenta in questa mostra in forma inedita, e che rappresentano quell’hic et nunc di cui si accennava sopra, quell’emergenza esistenziale dell’essere/esser-ci, ossia il qui-ora di heiddegeriana memoria, quel darsi come epifenomeno della materia che si fa materia-altra che trasmuta alchemicamente nell’Oltre e che trasmigra verso nuovi orizzonti. Sembrano muri occlusivi questi pannelli dipinti, rifulgono come superfici non colloquianti; ci appaiono come sorde pareti afone, come telai respingenti e senza memoria, come spazi senza spazio. Le meccaniche (tubi, ferri) che arricchiscono di senso queste tele sembrano vagare nella superficie come i personaggi del teatro dell’assurdo di Artaud, sono fredde come le “macchine celibi” di Duchamp, crudeli e distaccate come quelle di Tanguy, ossessive e primitive come quelle di Kounellis. Eppure, non ci accorgiamo che Bruno Di Pietro, oggi più di ieri, costruisce i segni del suo tempo con la ferrea logica di un antico ingegnere, capace a far di calcolo e di soppesare il racconto nel tempo breve dello spazio a lui concesso, distribuendo i carichi nel precario equilibrio di una rima poetica come avrebbe fatto Ungaretti nell’introverso sintetismo ermetico. Una meccanica compiacente sottostà alla pura visibilità di queste opere come la bellezza di una Nike di Samotracia sta alla sfolgorante lucidità di una macchina lanciata in corsa di marinettiana memoria. Può sembrare un ossimoro parlare di metafisica dinamica, ma questo è il mondo che Di Pietro consegna al nostro tempo. Ciò che l’artista restituisce al mondo è il segno di una coscienza attiva, capace di rendersi liricamente composta, ma anche ipoteticamente ribelle, come quando si pone di fronte ai grandi temi della nostra epoca parlando di Covid, di ambiente, di crisi energetica, di catastrofe naturale, di fine dell’universo con opere quali il trittico Oxygen in ripetute serie. Scrive l’artista nel suo manifesto Oxygen: “Vorrei si riuscisse a leggere nel loro simbolismo i miei lavori cosi come ad interpretare quel mio pensiero filo-artistico con i tubi acciaiosi e flessibili che nell’opera collegano l’uomo-maschera all’albero dove questi vanno a completare il messaggio di un uomo che per completarsi nell’essere attinge naturalmente alla preziosità dell’albero e a quella naturale funzione ossigenante vitale che essa emana”. La sua coscienza di artista-ambientalista come Beuys, lo porta ancora ad affermare: “La mia idea è che se l’uomo non torna al rispetto della natura, alle acque e a quel prossimo suo ne consegue certamente una vita di stenti, miserie, virus e di conseguenza sarà sempre più difficile potersi cautelare vuoi chimicamente che con mezzi e sistemi tecnologici come depuratori e filtranti vari in un vortice perverso e sempre più problematico per tutti, cosi come il doversi proteggere da elementi climatici (disboscamento, siccità e così il riscaldamento globale) innescando sempre più una estenuante ed impari lotta per la sopravvivenza energetica-alimentare. Volendo fare una riflessione cronologica uomo-natura fin dai primordi al primo stadio vi è posta quella saggia e meravigliosa evoluzione biologica come l’albero eletta ad icona di vita che insieme all’acqua sono fonti primarie et indispensabili come l’ossigeno. Quindi dopo l’albero con la sua preziosa biodiversità dovrebbe esserci l’uomo in quel presunto ordine cronologico compiuto su questo pianeta ma, questo essere sapiens conscio (in quanto intelligente) di un inizio nel perdere quel connubio millenario con il suo habitat si propone e interpone una presuntuosa tecnologia sperimentale spesso occasionale con un fare opportunistico inquinante e distruttivo (vedi pesticidi e ciò che ne consegue per le api e le acque) e così le tante dissennate guerre attualmente per il mondo, tutto quanto pur di continuare a concedersi sempre più una ostinata sopravvivenza egoistica incurante di un futuro prossimo”. Non è poca cosa tutto questo riflettere con lucida e partecipata nostalgia ciò che è e ciò che potrebbe diventare la realtà che ci circonda senza che l’arte non ponga un freno, un limite, che non alzi un grido d’allarme, che non dica le cose come stanno realmente. Mi impressionano in tal senso le sue “nature”, quei filamenti naturali rappresentati in forma vivente, come ad esempio nella tela “Bosco rosso” o in “Terra” dove, senza inizio né fine sembrano scendere o salire racemi di una selva fitta come quella di Pier delle Vigne nel XIII Canto dell’Inferno dantesco (vv.70-72). L’osservatore non sa da quale parte procedere con lo sguardo, ma sente di essere parte attiva del quadro, di essere al centro dell’opera come a suo tempo disse Umberto Boccioni. L’immanenza dell’atto è rapida e si consuma nei pochi secondi in cui l’occhio di chi guarda percorre in su e in giù la superficie del quadro come a voler cercare il tempo ritmico della narrazione, la meccanica segreta della macchina gioiosa. E’ tutto un procedere per scatti, un logico ascetico cammino verso la luce, uno svelamento del tempo della speranza, perché, e questo sia chiaro per tutti, Bruno Di Pietro è un profeta, un anacoreta delle forme in cerca di fede, la nostra fede, quella che non possiamo non concedergli in questo atto di coraggio.
Armando Ginesi
Armando GinesiLe radici del Mito nell'arte di Bruno Di Pietro, 2010.
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Il mito, così come lo si concepiva nell’antichità, era, innanzitutto, l’esigenza di dare una spiegazione ad eventi straordinari di cui non si coglieva la natura. Quando il primo essere ha avuto la consapevolezza del tuono e della collegata caduta del fulmine nonché della carica distruttiva di quest’ultimo, è probabilmente nato il mito di Giove tonante che scaglia saette perché, adirato, vuol punire l’umanità. Su questa esigenza primaria di “capire” il senso di un evento misterioso si innestano l’invenzione fantastica e il bisogno della sua narrazione. Sicché può dirsi che il mito antico sia una forma di racconto elaborato dalla collettività che lo confeziona e lo riconosce come proprio patrimonio spirituale. Dunque è una composizione poetica comunitaria. Chi conosce i miei scritti sa quante volte io abbia ripetuto che tra la civiltà del Mithos e quella del Logos io mi sento fortemente attratto più dalla prima che dalla seconda; perché, tra la fantasia e la razionalità, preferisco la libera invenzione fantastica alla logica ordinata e ordinatrice. Impattare dunque il lavoro pittorico e plastico di Bruno Di Pietro significa, per me, immergermi nel vasto mare del mito le cui radici originarie l’artista abruzzese mantiene inalterate facendone motivo di sorprendente interpretazione creativa. Di Pietro esordisce, nella metà degli anni Sessanta del secolo scorso, con interessi di natura figurativa. Gli insegnamenti di Pompeo Borra e certe suggestioni derivate da Domenico Cantatore o magari da Giuseppe Migneco lo tengono ancorato ai modelli di un realismo carico di solarità (tanto nei segni quanto nella cromia) con figure silenziose e quasi metafisiche, di forte ascendenza letteraria. Successive esperienze lo orientano verso la tematica religiosa, le nature morte, la rappresentazione dei cavalli (e nelle opere che affrontano quest’ultimo tema sembra di cogliere i primi nessi che lo porteranno, di lì a poco, ad affrontare la dimensione del mito còlta attraverso la leggenda omerica dell’Iliade e, subito dopo, con la serie degli Aedi). Come già ho avuto modo di scrivere qualche anno fa, i poemi omerici interpretati da Di Pietro diventano “suggerimento, di tipo ampio e sinfonico, a trasformare le fantasie e i sogni in immagini, in forme, in segni e in colori”. Il ciclo dell’Iliade e quello degli Aedi sono pur sempre legati all’ermeneutica figurativa che però, verso l’inizio degli anni Duemila più o meno, gradualmente egli abbandona per andare alla ricerca delle “impronte primordiali”, come ama chiamarle, ovverosia dei segni indicatori del processo della creazione originaria. Stilisticamente parlando, il passaggio va dalla rappresentazione figurativa – sia pure idealizzata e trasfigurata dai riferimenti letterari e mitici – ad una sorta di informalismo non del tutto aniconico: perché le tracce a cui Di Pietro fa riferimento nelle titolazioni conservano pur sempre (mediante le impronte palmari delle mani) accenni alla figuralità. Tuttavia l’accentuato bisogno dell’autore di andare alla ricerca di ciò che sta oltre il fenomenico, di una realtà essenziale che vive e palpita al di là dell’apparente, incomincia a palesarsi in maniera sempre più nitida. Essa, in sostanza, esisteva già quando Di Pietro incominciava ad addentrarsi nell’universo mitico, dal momento che il mito si nutre di simboli i quali altro non sono che concentrati di energia extra-empirica e dunque proveniente dalla dimensione dell’essenza più che dallo status dell’apparenza. Ora l’artista potenzia questa necessità dello spirito di indagare là dove la ragione, la scienza, la logica non si avventurano, ma dove la fantasia può penetrare senza troppa difficoltà. Inizia così la serie dei Confini o Ai confini del creato, la quale mi pare che si estrinsechi attraverso una manipolazione della materia informe quasi a voler ricercare le condizioni della creazione primordiale; a voler scandagliare all’interno della struttura materica per cogliere i segni che possano raccontare il mito di quel gesto creativo di cui parlano tutti i testi cosmogonici. Anche utilizzando un elemento simbolico che è ricorrente nell’espressività di Di Pietro (esisteva, realisticamente risolto, anche agli esordi della sua pittura figurativa) e che è l’albero. Adesso esso appare essenzializzato, ridotto talvolta a puro elemento grafo-cromatico, ma conserva integro il potente senso di rimando alla sacralità in generale, alla dimensione vitale, all’ascendenza verso ciò che è trascendente. Anche l’albero è presente in tutta la letteratura sacra a partire da quella rivelata: l’albero della conoscenza; l’albero della vita; l’albero della Croce; l’Axis Mundi. Così come credenze, leggende e miti di tutto il mondo – ce lo spiega l’antropologia culturale – comprendono e sviluppano le relazioni tra l’uomo e la pianta, segnatamente l’albero, il quale, tra le tante significazioni e funzioni ha anche quella della rigenerazione e della sponsalità, quindi della vita. Sicché l’albero, con tutto il suo ampio e ricco senso di positività, è presente in ogni opera dell’ultimo periodo (il settimo, a ben contare) di Bruno Di Pietro. Esso si unisce al “confine”, al senso cioè di appartenenza ma anche di suo superamento; alla demarcazione tra spazi differenti; alla linea, a volte impalpabile epperò esistente, tra il di qua e il di là, tra lo spazio sacro e quello profano. Del resto anche l’albero può essere un confine, come la porta attraversando la quale si entra in una dimensione altra. Stare sul confine, ovvero sulla linea della liminalità, significa essere tra coloro che-non-sono-più e coloro che-non-sono-ancora, cioè a dire trovarsi immersi nel regno delle possibilità pure, dove tutto può essere ed accadere (come la tela bianca di cui parlava Vasilij Kandinskij) e dove l’arte si colloca proprio con la sua capacità di essere confine tra il mondano e il trascendente, albero di collegamento tra il basso e l’alto, tra la terra e il cielo, tra l’empirico e l’extra-empirico, tra la materia (di cui si serve) e lo spirito (di cui è espressione attiva). Su questo terreno l’antropologia culturale (soprattutto quella simbolica) ne avrebbe di cose da dire. Così come della scelta che Di Pietro ha fatto, nell’ultima produzione pittorica, della composizione a trittico. Il numero tre: numero perfetto, si dice, perché “il tre porta a me nuova integrazione che non nega la precedente separazione, bensì la supera” (come ha scritto Ludwig Paneth) al pari del bambino il quale rappresenta un terzo elemento che congiunge il genitore maschio con quello femmina. Cantava il poeta francese Guillaume de Salluste Du Bartas, nel Semaine (1587): Il più vecchio dei numeri dispari, per l’esattezza il numero di Dio… / il numero più caro al paradiso, il cui centro racchiuso / si estende ugualmente dai due estremi / il primo che ha un inizio, un mezzo e una fine. Il tre come sintesi della natura (acqua, aria, terra); dell’aggregazione molecolare (solido, fluido, gassoso); delle cose create (minerali, vegetali, animali); della composizione vegetale (radice, stelo, corolla) e del frutto (buccia, polpa, nocciolo); del percorso solare e delle sue conseguenze temporali (mattino, mezzogiorno, sera). Ma ancora delle coordinate spaziali (altezza, lunghezza, profondità); del corso vitale (divenire, essere, perire); delle modalità del pensiero (tesi, antitesi, sintesi); dei colori fondamentali (rosso, giallo, blu). Di Pietro fa proprio volutamente il portato simbolico del trittico, come riproposizione della sacralità del numero tre anche nell’ottica cristiano-cattolica che riassume la divinità nel mistero trinitario del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. In questa rivisitazione profonda della natura del mito attraverso i suoi significati nell’antichità, l’artista sembra voler riconsegnare all’uomo la sua spiritualità o quantomeno offrirgli la possibilità di recuperarla. Perché il mito – come dice Mircea Eliade – “rivela più profondamente di quanto potrebbe rivelarlo la stessa esperienza razionalistica, la struttura stessa della divinità che si pone al di sopra degli attributi e riunisce tutti i contrari”. Con l’opera pittorica (e scultorea) di Di Pietro si realizza la coincidentia oppositorum che è uno dei modi più arcaici con cui si è espresso (sempre per dirla con Eliade) il paradosso della realtà divina. Dunque il mito ci riconduce all’unicum, alla totalizzazione del molteplice e degli estremi. Ma attenzione: quando ci riferiamo ai miti lo facciamo nella prospettiva temporale dell’antichità, perché nel linguaggio moderno, ahinoi, il mito ha assunto un altro senso. Esso è fabbricato a tavolino, utilizzando la ragione e non il sentimento. Non ha nulla perciò di spontaneo, al contrario odora di mistificazione. Sicché, nel lessico della modernità, il mito è diventato un’altra cosa rispetto a quello che era nei tempi antichi e si è immiserito al livello umano, abbandonando l’extra-empirico per la mondanità, la dimensione uranica per quella terrestre. Nulla a che vedere perciò con il mito di cui si occupa Di Pietro che, come tutti gli artisti che siano davvero tali (e non meri tecnici del virtuosismo) lo utilizza per ricercare una perduta chiave dell’Eden sospinto da un’insopprimibile e commovente nostalgia del Paradiso. Armando Ginesi (dal catalogo “Ai Confini del Creato” Ianieri editore, Fondazione Pescarabruzzo. Pescara, 2010
Stefano Tonti
Stefano TontiL'epos dell'Iliade come pretesto e parafrasi dell'esperienza epica dell'artista, 2004.
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Per molti dei più o meno giovani autori che si affacciano all'esperienza artistica, o a volte addirittura s'impongono all'attenzione del variegato mondo dell'arte e del mercato, emerge l'impressione di essere spesso alla ricerca di una definizione della loro opera entro i limiti circoscritti di un avvicinamento o di una certificazione rispetto alle maggiori esperienze stilistiche che hanno caratterizzato la storia dell'arte contemporanea. Questo accade anche quando per certe opere si può riconoscere un percorso di ricerca che pure parte da autonomi ed attendibili presupposti teorici, storici e culturali o quando si tratta di autori con una preparazione accademica corretta, ma, forse, proprio per questo, "inquinata" dai modelli correnti e che finisce, in questi termini, per scomparire inevitabilmente nelle sabbie mobili di un'anonima produzione artistica, nella produzione(nota) (ed il termine non è usato impropriamente se si pensa all'oggetto d'arte come prodotto con caratteristiche ben definite da un mercato) di un manufatto quasi esclusivamente volto alla speculazione intellettuale ed alla commercializzazione dell'opera. La conseguenza è che, anche quando il linguaggio potrebbe avere importanti potenzialità, questo diventa irrimediabilmente "requisito" da un inquadramento stilistico che piuttosto limita e condiziona, invece di liberare l'autore (come la pratica artistica dovrebbe essere), verso una linea di percorso autonomo e credibilmente originale. Al di fuori dei pochissimi prestigiosi protagonisti dei più significativi movimenti artistici della seconda metà del Novecento, che di diritto entrano nel novero di una letteratura a carattere storiografico puntuale e giustificata, quel modello di atteggiamento nei confronti dell'esperienza della pratica dell'arte diventa del tutto fuori luogo, almeno per (o nei confronti) di un autore che è seriamente impegnato nella ricerca di un vero e proprio percorso artistico che abbia un senso estetico e filologico, quale elemento caratterizzante dell'espressione della propria sensibilità, della propria poetica, della propria esperienza di vita che genera e nutre l'espressione spirituale che dà forma all'opera. Così, l'impressione che ho registrato la prima volta che ho avuto, invece, l'occasione di conoscere il complesso dell'opera di Bruno di Pietro, è quella che il suo lavoro non si può assoggettare a nessuno dei numerosi "ismi" che hanno caratterizzato le vicende della storia recente dell'arte contemporanea. Anzi, direi che non si possa a questi nemmeno tentare di comparare o riferire tanto è autonomo sia il percorso storico della propria pratica artistica che l'atteggiamento mentale e spirituale dal quale questa stessa esperienza prende le mosse. Di Pietro è del tutto affrancato ed estraneo a questa logica (anche in funzione di un possibile e facile mercato) in virtù della sua autonoma e autentica ricerca di un equilibrio lirico che sia allo stesso tempo lineare ed omogeneo con la sua vicenda d'artista, ma che sia anche significativo in funzione della sperimentazione delle tecniche che affronta del tutto naturalmente e che, coagulando esperienze e sperimentazioni realizzate negli anni, oggi raggiungono e si definiscono significativamente per una maturazione artistica del tutto pregevole, oltreché consapevole. Il suo percorso nasce secondo un'aspirazione alla pratica dell'arte che guarda alle caratteristiche più tradizionali della pittura: le tecniche e i generi. Un esempio è lo studio della figura e del paesaggio, affrontati attraverso la tecnica dell'olio, che è espressione per antonomasia del binomio pittore - rappresentazione figurativa secondo uno stereotipo piuttosto diffuso nell'immaginario dell'uomo comune rispetto all'esperienza della pratica dell'arte. E mi piacerebbe pensare che, forse, proprio da questo "stereotipo" nasce l'aspirazione artistica di Di Pietro che vede la figura dell'artista come quella di un bohemienne, come quella del "vagabondo" dell'esperienza della vita che è, però, alla scoperta della conoscenza del mondo e alla ricerca della sua rappresentabilità in un ambito visivo di ordine figurativo. Questa aspirazione, che vuole partire agganciandosi a molti degli elementi della tradizione (uso delle tecniche pittoriche, interesse per la figurazione, ecc.), vuole essere contemporaneamente nutrita, in maniera propositiva e non specificatamente consapevole, anche dalla ricerca dei luoghi d'incontro e dei termini del più valido dibattito artistico del momento. E' con queste motivazioni che si trasferisce prima a Milano e poi a Parigi per respirare, sia metaforicamente che fisicamente, l'aria dei luoghi del mondo dell'arte, peregrinando per le varie capitali europee per una documentazione intellettuale di esperienze artistiche e culturali che lo portano a confrontarsi con le varie esperienze dell'arte contemporanea in una scuola pratica di vita e d'arte, fino ad iscriversi, per le stesse ragioni, anche all'Accademia di Belle Arti di Brera con una modestia ed un'onestà intellettuale che giustificano, al tempo stesso, i motivi delle sue scelte. In parte segnato da queste esperienze, in parte non del tutto soddisfatto del più intimo valore delle stesse, in questi anni definisce una prima produzione realizzata attraverso tempere, acquerelli ed olii, come momento in cui l'analisi dell'esperienza sul mondo è realizzata su una personale interpretazione della figurazione anche attraverso la figura: da quella femminile (che viene definita molto essenzialmente e raffinatamente nella sua riformulazione d'ispirazione prettamente accademica), a quella del Cristo e dei Pagliacci, soggetto quest'ultimo spesso troppo rivisitato per tradizione da una pittura "di genere", per il quale, in alcune felici soluzioni, Di Pietro riesce sorprendentemente a coglierne la qualità poco evidente di un'intima religiosità, di dignità dell'alterità della maschera che appartiene ai soggetti sacri o ai primi ritratti di contadini; partendo da quei tratti scavati dei volti, ora, è dai segni del trucco che la "maschera" rivela non tanto se stessa (in quanto volto, o pagliaccio), quanto l'anima del personaggio. Come un'"anima" sembrano avere la natura morta ed il paesaggio. Pare quasi non esserci differenza fra i tralci d'uva e la laguna veneziana, tanto, entrambi, esprimono armoniosamente un mondo suggestivo ed interiore seppure realizzato, allo stesso tempo, con fare deciso nei toni rarefatti e quasi surreali di una pittura che, attraverso i suoi modi diventa, come in alcuni ritratti, elemento di veicolazione di quella originaria, mistica e ispirata interpretazione della figura umana. E se a questo punto termina un primo lungo periodo espressivo direi di confronto del tutto rispettoso e amabile con la pittura, che è piuttosto una palestra per una riflessione più compiuta sul valore dell'opera d'arte, ecco che i generi della pittura, ai quali Di Pietro fa riferimento fino alla metà degli anni Ottanta, si trasformano successivamente. Ciò avviene essenzialmente per l'esigenza di sperimentare nuove tematiche e tecniche diverse dalla tradizione, passando dal collage ai materiali dell'arte povera che lo portano ad approdare ai temi dell'epica greca, in particolare all'Iliade. In un decennio realizza una serie di disegni, incisioni e dipinti che sono indifferentemente appunti, studi e, allo stesso tempo, opere finite e rappresentano la prima grande esperienza di un connubio tra l'autore ed il tema dell'interpretazione della vicenda epica. Da questo momento Di Pietro comincia un percorso decisamente importante che lo conduce verso un equilibrio estetico fatto di una disciplinata e corretta sintesi tra la tecnica rappresentativa e il tema dell'opera, tale da potersi proporre in maniera del tutto autonoma, ma riconoscibile, come lo è in quest'ultima esperienza sull'epopea dell'Iliade. L'epopea degli eroi e dell'artista: tra mito e leggenda La recente opera di Bruno Di Pietro risulta così pienamente ispirata dall'epos, da un'epica fortemente intesa e, quindi, interpretata a partire dal suo significato letterale di "narrazione in chiave poetica di imprese eroiche", sembra essere indissolubilmente legata al fascino conseguente della figura e dell'episodio del mito, quasi rapita dall'affabulazione della leggenda. In questo contesto è possibile affrontare l'analisi dei disegni, dei dipinti e delle sculture sotto diversi aspetti, tutti ugualmente importanti e suggestivi, che offrono utili indicazioni per una loro più completa fruizione e danno interessanti stimoli e spunti di riflessione. La prima questione riguarda la possibilità di affrontare l'Iliade come un vero e proprio resoconto sotto forma di metafora per raccontare l'esperienza estetica e poetica dell'artista vista ed interpretata effettivamente come racconto di gesta eroiche. Le imprese memorabili dei protagonisti dell'Iliade, a mano a mano che passano e si dipanano tra i disegni, le opere pittoriche e le sculture, acquistano altri significati narrativi e si trasformano dal resoconto delle gesta degli eroi omerici ad una ancor più impegnativa narrazione, quella dell'acquisizione del valore universale dell'impresa eroica nella condizione, nella vita e nell'esperienza umana dell'artista. Quest'ultimo diventa paladino (altra figura epica medievale, anche leggendaria e mitologica come piace a Di Pietro) dell'avventura poetica che lo porta alla rappresentazione ed all'interpretazione del mondo; una condizione stimolante ed allo stesso tempo impegnativa e "pericolosa", spesso piena di contraddizioni e carica di importanti responsabilità anche morali. L'artista si fa eroe, cavaliere, in qualità di testimone e rappresentante del suo tempo e, quindi, anche della condizione dell'uomo a lui contemporaneo: "La pittura, così come l’opera scultorea di Di Pietro, sintetizzano egregiamente la condizione dell’uomo odierno intrappolato nel suo presente con tutti i problemi, ma anche le paure e le angosce che lo attanagliano confinando la sua esistenza nell’ambito di una quotidianità vorticosa, avida, vorace. Di Pietro racconta la società odierna attraverso una rappresentazione onirica nella quale i miti dell’Iliade diventano metafore del tempo presente". La sua opera diventa così la rappresentazione dell'epopea dell'uomo contemporaneo come trasferimento del genere letterario specifico (inteso come il complesso delle narrazioni nella letteratura di un determinato popolo in un dato periodo storico), nelle arti visive. E' anche in questo senso che il racconto dell'Iliade, attraverso la pittura e le sculture, sembra meglio rispondere a quel superamento della definizione di epica secondo la definizione letterale di racconto dell'impresa eroica che, invece, in senso figurato, raggiungendo le qualità del sublime, comporta qualcosa di eccelso che la distingue, quindi, dal racconto delle ordinarie capacità umane e dei più comuni comportamenti. In Di Pietro l'epos è quasi universalità, tanto che la rilettura del poema di Omero diventa il pretesto e la parafrasi di una condizione eroica che, attraverso la stessa esperienza dell'artista automaticamente e autonomamente si rinnova per farsi a sua volta impegno epico, epopea di una nuova e del tutto personale rappresentazione del mondo che, attraverso gli strumenti dell'arte (pittura o scultura), suggerisce e si trasforma verosimilmente in una nuova dimensione estetica. Nel linguaggio artistico di Di Pietro, effettivamente, sembra non esistere o non poter coesistere la contrapposizione tra una rappresentazione esclusivamente lirica del poema ed il carattere più freddo della narrazione oggettiva (come anche è l'epica), ma anzi la sua rilettura dell'Iliade ne compendia il linguaggio letterario distinguendolo subliminalmente, per raggiungere quel significato ancora vicino all'epica di epopea di cui si è detto, che è narrazione poetica, in registro stilistico elevato, di imprese epiche, memorabili. In questo registro, è da ricercare la nuova dimensione estetica dell'opera di Di Pietro, fortemente caratterizzata da esclusive rappresentazioni formali delle figure degli eroi, delle battaglie, degli episodi del poema. Le figure, che ad un primo sguardo non sembrano completamente riconoscibili nelle loro qualità di personaggi, come Achille, Agamennone, Patroclo, ecc., anche se di questi eroi ne portano gli elementi simbolici, sono piuttosto la rappresentazione immaginifica del pathos (anche inteso nel significato etimologico originario dell'emozione estetica espressa o suscitata da un personaggio come nella tragedia greca, o per l'opera d'arte) che deriva a noi comuni mortali e fruitori dal racconto leggendario; sono l'interpretazione soggettiva dell'artista dello spirito della figura mitica e leggendaria che, nelle opere pittoriche, in particolar modo, si fonde e si confonde nelle forme allo stesso tempo contorte ed essenziali, ma potenzialmente riconoscibili, di una estremamente pulita e raffinata sintesi di elementi fisici e di convulsi "cumuli" di corpi e di simboli (l'eroe, il cavallo, la lancia, l'elmo, lo scudo, ecc.). Se, pertanto, la narrazione oggettiva del fatto, dell'impresa, o la caratterizzazione del personaggio fanno riferimento al poema prendendone spunto dall'evento letterario per librarsi e liberarsi attraverso la visione fantastica dell'artista, questa narrazione è comunque puntualmente presente e correttamente rispettata nell'approccio filologico al poema: a volte i dipinti di Di Pietro sono ritratti di personaggi come Aiace, Ettore a cavallo, Guerrieri con cavallo e armatura, Il guerriero, o ritratti didascalici degli eroi o puntuali letture di brani, versi o scene dell'Iliade come L'ira di Achille, Agamennone in battaglia, Patroclo con le armi di Achille uccide Serpedone, Anime erranti, altre volte, infine, sono vere e proprie sintesi pittoriche di parentesi mitologiche come La leggenda d'Ilio, per finire con il restituirci (in un'interpretazione più fantastica che verosimile), la descrizione pittorica di semplici oggetti, elementi storici della cultura greca come il Vaso Acheo con frutta verde. La rappresentazione pittorica oltreché "giocare" sull'interpretazione delle forme, si caratterizza per tre elementi considerevoli: il disegno, il colore, la composizione scenografica. Il disegno, di caratteriste tecniche che somigliano al design, si definisce per un segno impegnativo, ma, allo stesso tempo, di spigliata linearità che, però, non rimane mai orfano di un tratteggio eseguito secondo i canoni della più importante tradizione accademica: è lo stesso impegno stilistico ed il medesimo valore tecnico che si può riscontrare nelle incisioni che trattano alla stessa maniera i temi e i personaggi dell'Iliade. Questo segno è la struttura, l'impalcatura delle opere pittoriche che vengono valorizzate dalla sapiente scelta del colore. Qui i colori sono caldi e soffusi tanto da essere un veicolo per il coinvolgimento dell'attenzione dello spettatore e richiamano, in una sorta di archetipo antropologico, i colori dell'antica Grecia, quelli che, presumibilmente, dovevano essere nelle decorazioni delle metope dei templi. Infine, segno e colore, si fanno interpreti di una soluzione scenografica d'insieme quale complesso espressivo dell'opera. Se la scenografia è l'applicazione artistica e tecnica per realizzare il complesso, l'allestimento scenico, l'ambiente di un'opera teatrale, nella pittura di Di Pietro lo spazio del foglio o della tela diventano la prospettiva architettonica, appunto scenografica, degli ambienti dell'epopea omerica, lo studio di posa per la rappresentazione dei personaggi; ma i ritratti, le scene di battaglia, nella loro composizione formale, nel perimetro dell'opera dipinta, sono a loro volta una rappresentazione scenografica inedita ed efficace tale da conchiudere il senso dell'opera. Il risultato, però, più pieno e artisticamente di valore compiuto sono le più recenti sculture che, solide di una raffinatezza tecnica esemplare, sembrano avere la qualità di una propria grandezza epica in cui la narrazione poetica, in chiave figurativa, delle imprese degli eroi, di elevato registro e valore estetico, raggiunge l'equilibrio della vera opera d'arte. L'accostamento di marmo sapientemente levigato ed elementi metallici come l'ottone dà, per risultato, una forma scultorea di originalissime "sagome" rappresentative degli eroi, dei protagonisti o anche solo degli elementi di cornice dell'epopea omerica come i cavalli o le armature. Queste sculture sono il risultato di una complessa ed articolata ricerca che prende le mosse dalla realizzazione di quelle che Di Pietro stesso definisce scultopitture, opere essenzialmente realizzate con elementi metallici di recupero in cui è forte la caratterizzazione, la compenetrazione e la meticizzazione tra la pittura e la scultura. Sono soggetti senza forma oggettiva, eroi androgini e antropomorfi quasi esclusivamente riconoscibili per quegli elementi distintivi esclusivi dei personaggi (l'elmo, la lancia, lo scudo, la spada, ecc.) che sono la caratteristica didascalica della "forgiatura" poetica dell'opera nel nuovo contesto della tecnica utilizzata. Aspetti di una valenza pedagogica a carattere estetico dell'epica nell'Iliade di Bruno Di Pietro Vorrei infine affrontare un altro argomento della rilettura del poema di Omero realizzata da Di Pietro, nel tentativo di "suggerire", o ritrovare, un aspetto della modernità del poema. Questo, non tanto in chiave letteraria (allo scopo mi sembra piuttosto concreto e originale il contributo dato in questo volume da Franca Minniti), quanto per quel risvolto, del tutto particolare, in cui si può individuare un valore didattico e didascalico per un'interpretazione pedagogica dell'opera d'arte che travalica il carattere artistico fine a se stesso, per offrire, invece, nell’occasione dell'esperienza letteraria, un veicolo di avvicinamento ai modi dell'arte contemporanea. In questo contesto sono almeno due i valori che si possono riconoscere al nostro tentativo di analisi: il primo che considera i termini estetici dell'opera come rivalutazione del concetto di bellezza; il secondo che, rispetto a questo recupero, investe il pubblico, il fruitore dell'opera, di un'idea di ri-educazione all'arte come conoscenza antropologica della propria cultura visiva per una riappropriazione di una più vasta e comune cultura figurativa. Stefano Zecchi, in un suo recente saggio, fa riferimento a quel concetto di bellezza dato dalle forme classiche di rappresentazione artistica che appartengono alla cultura occidentale ed europea, intesa anche come rifiuto dei nuovi (oramai desueti) linguaggi di massa, che sono tra l'altro confluiti anche nell'arte, per ridare, invece, corpo e dignità all'espressione artistica attraverso la forma, anche come valore rappresentativo della conoscenza. L'opera di Di Pietro è riconoscibile di un valore estetico in questo senso, proprio in virtù di una ripresa esemplare e leggibile di questo dichiarato e richiamato classicismo che traspare nella fattura e nei modi della sua pratica artistica, che viene, tra l'altro, sostenuto e confortato dal valore della storia stessa dell'artista che, come si diceva in apertura, è da sempre affrancato dal più greve conformismo dell'arte contemporanea. Inoltre, questa rilettura dell'Iliade si caratterizza anche per una messa in pratica di quel valore conoscitivo, secondo il significato etimologico del termine estetica (aisthesis) da intendere per la sua valenza primitiva di conoscenza sensibile del mondo e delle cose, che, nel contesto dell'opera di Di Pietro, offre la possibilità di essere realizzato proprio attraverso il senso della vista nella percezione delle forme e dei modelli relativi al classico. In questa analogia è da leggersi la valenza pedagogica dell'opera presente in questa mostra, chiaramente realizzata nell'approccio alla cultura del mondo occidentale per mezzo di un'esperienza artistica individuata, pertanto, in maniera didascalica, con l'epopea di Omero, un'opera del mondo classico che si offre anche naturalmente a questa esperienza. L'opera pittorica e scultorea realizzata da Di Pietro rielabora efficacemente la radice culturale europea, come origine comune di un variegato percorso storico, nella reiterazione del valore della cultura classica. Anche in questo senso, viene realizzata la possibilità di una rivalutazione del mondo antico anche nei valori della contemporaneità per mezzo di un'estetica che, rimanendo agganciata alla fruizione sensibile delle cose ed al concetto classico e tradizionale di bellezza, ne attualizza la rappresentazione attraverso l'espressione formale più riconoscibile dell'arte secondo la rivalutazione e la rielaborazione dell'antico. In questo senso l'opera di Di Pietro attualizza il pronosticato tentativo di cui parla Stefano Zecchi nella corrispondenza di un'organizzazione stilistica aggiornata ed attuale, quindi contemporanea, di questo modello di bello ideale che trova i modi e lo spazio necessari in virtù di un'adeguata organizzazione didascalica e didattica tradotta in un linguaggio visivo comune a tutti una volta interpretato per tutti dall'artista fino a contribuire ad assolvere, tra gli altri, anche a quel più attuale intento della pedagogia contemporanea che vuole essere spesa per un'educazione più generale dell'individuo secondo il concetto che è l'educazione permanente dell'adulto. E' in questo, direi quasi esemplare, intervento dell'artista che si può anche riconoscere la capacità di convertire l'esperienza estetica del mondo nell'opera d'arte, nel modo con il quale Di Pietro riesce a leggere, nel suo caleidoscopio privilegiato, il senso compiuto di una riflessione e di una visione del mondo e sul mondo nei termini della sua riproduzione e rappresentazione dell'epos dell'Iliade e a restituire all'uomo comune, anche in virtù del corretto uso delle regole e delle tecniche classiche ed accademiche della pratica dell'arte (il disegno, la pittura, la scultura statuaria), il valore della comune avventura umana, chiarendo a se stesso e agli altri (come mi è capitato di verificare ultimamente anche in altre situazioni) il senso della comune contemporaneità.
Franca Minnucci
Franca MinnucciDi Pietro e il poema della guerra: l’Iliade, 2004.
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Tra tutte le tradizioni culturali i poemi sono il genere letterario più antico e più affascinante. Essi vivono, è vero, di una fissità scritta, ma che arriva dall’oralità e hanno dell’oralità la fluidità dei fatti, la vivezza dei colori, la descrizione ampia e fantasiosa, la plasticità dei particolari ma soprattutto la condizione più essenziale e seducente del racconto: la libertà. Perché raccontare una storia è la forma più alta di libertà. Narrare significa creare senza limiti, poter percorrere ogni strada, ogni rivolo senza conoscere l’approdo; significa misurarsi con tutte le possibilità, andare verso l’infinito, l’eternità. Solo agli uomini è data questa genialità, noi siamo narratori ma siamo anche narrati. Un antico detto rabbinico alla domanda “Perché Dio ha creato gli uomini?” recita: “Non lo so, ma a Lui piacciono tanto i RACCONTI”. L’atto creativo è un lungo racconto, noi siamo narrati e narratori e riproduciamo tutte le volte lo stesso percorso creativo-narrativo; quello dell’archetipo che dal Caos origina la vita. Raccontiamo quindi sempre la stessa storia e costruiamo la trama sottile della tela intrecciando vita e morte, sogni e sconfitte, vittorie e sciagure in quest’atto creativo che avvicina l’uomo a Dio e lo rende libero e onnipotente. Nell’Iliade Omero racconta la sua storia e la coglie in uno dei nodi fondamentali, quello del “PERENNE CONFLITTO”. Il conflitto senza conclusioni, rappresentato nella narrazione dall’assedio interminabile degli achei alle imprendibili mura di Troia. Il tema del conflitto è tra i più frequentati nella letteratura e nell’arte sia come rappresentazione di contrasti tra forze avverse, tra mondi opposti ma anche come conflitto individuale, conflitto di coscienza, inquietudine, lacerazione. I protagonisti assedianti e assediati sono impegnati continuamente a lottare o con loro stessi, si pensi all’ Edipo Re di Sofocle, ai Fratelli Karamazov di Dostoevskiy, al Dottor Jekyll e il signor Hyde di Stevenson; oppure si agitano per vincere forze misteriose e inespugnabili come nell’opera di Kafka, e nei poemi omerici. Nell’Iliade le forze avverse, gli achei e i troiani, combattono inutilmente da dieci anni senza che ci siano vincitori e vinti. Troia è il luogo assediato, il destino ha già deciso che le sue mura cadranno e che la sua conquista coinciderà con la sua fine. Chiusa nella città vi è Elena il cui rapimento è stato causa della guerra. Elena è il fine comune, la salvezza, il Paradiso perduto, rappresenta per tutti il miraggio di felicità: impossibile per i troiani restituirla, impossibile per gli Achei riconquistarla. La grande metafora della vita ancora una volta si racconta come un intervallo tra un’origine e una fine. Il tempo fra questo intervallo secondo Omero occorre sia tenuto in una posizione di sospensione: bisogna tenere in equilibrio quel filo sottile e fragile che è la vita, la storia del mondo con le sue gioie e i suoi dolori dove le guerre, la pace, le sconfitte e le vittorie non sono mai decisive; in questa scacchiera si muovono e cadono personaggi e figure ma le battaglie non sono mai perse o vinte definitivamente e i pezzi importanti sono tutti impegnati a reggere questo equilibrio tanto fragile da apparire miracoloso. La nostra vicenda parte da un inizio vago, imprecisato, un passato privo di memoria che è quel Caos primordiale da cui proveniamo tutti e che nella storia sono gli anni di guerra precedenti, quelli che non vengono raccontati, che però si avvertono, si sentono, si intuiscono per arrivare poi ad una fine certa, prestabilita che è la distruzione di Troia ma anche la prefigurazione della morte in quanto termine sicuro e finale di ogni processo vitale. Essa però non viene mostrata e come quella della vita, l’azione del Poema si snoda come se non fosse possibile tornare indietro se non con il sogno, l’immaginario, la fantasia o in quella condizione di generale melanconia che si avverte nel profondo di ogni anima e nel Poema stesso. E’ un relativismo questo che si ascrive nell’universalità, nell’epopea del clima omerico e lo riconduce ad una saggezza antica che muove dalla convinzione che nulla cambia; la guerra è una guerra centrifuga, involve, modifica apparentemente la superficie, la crosta, ma il senso della vita, i riferimenti, il suo valore è uno e non è dato all’uomo conoscerlo e cambiarlo. Come la vita il Poema contiene la morte, la guerra; il conflitto perenne tra il bene e il male. C’è un episodio illuminante nel libro secondo nello scontro tra Ulisse e Tersite che simboleggia la contrapposizione tra il modello eroico positivo, il bene, e l’antagonista di bassa estrazione sociale, il plebeo che rappresenta il male. Nella sensibilità comune Tersite sembra stare dalla parte della ragione; egli consiglia infatti con saggezza di riprendere il mare e tornare in patria mettendo fine ad un’inutile ed insensata guerra. Ma la visione del mondo e della guerra non è questa e segue altre coordinate. Occorre riconfermare la centralità dell’aristocrazia guerriera, del modello capitalistico vincente. L’episodio incarna quindi in maniera precisa e perfetta l’ideale politico di una società aristocratica ieri, capitalistica oggi, che non tollera critiche e non è disposta a concedere spazi di libertà a una classe popolare senza ruolo e senza prestigio. C’è una sconvolgente attualità in questa visone della guerra e del senso della guerra. La guerra come imposizione di un diverso modello sociale culturale, la guerra come distruzione degli ideali umani e religiosi, la guerra come sopraffazione psicologica e morale. L’unica variante è che nell’Epopea greca la guerra si fronteggia rispettando i valori fondamentali di quella società aristocratica; è vero che l’eroe combatte il nemico ma non si fa trascinare dall’odio, al contrario è pronto a riconoscere e rispettare il valore dell’avversario. C’è il riconoscimento quindi dei valori assoluti dell’amicizia, della genìa che vanno rispettati in qualunque circostanza. Non c’è filìa, non c’è xenìa oggi che si rispetti; non c’è umanità, non c’è Pietas nelle feroci e devastanti guerre delle attualità. Ed è proprio qui che si divarica il mondo poetico della guerra per quanto storica e reale possa essere nei suoi riferimenti, dalla terribile attualità dei conflitti. Omero è il poeta di Achille che offeso da Agamennone piange sulle rive del mare invocando la madre, il poeta dell’ ultimo addio di Ettore ad Andròmaca e al piccolo Astianatte, è il poeta che fa piangere i cavalli di Achille per la morte di Pàtroclo C’è nel mondo eroico di Omero qualcosa che ci affascina e ci interroga: come analizza M. Croiset nell’Histoire de la littèrature greque, l’umanità che Omero descrive è ideale ma si ricorda della realtà perché pure essendo grande, pure con eroi robusti, agili e vigorosi non è mai smisurata e inimmaginabile. Le battaglie per quanto immense e furibonde sono battaglie di uomini non di giganti. Agamennone e Diomede, Ulisse e Aiace lottano da soli contro le grandi masse ma non succede come nelle grandi narrazioni cicliche delle Chanzon dove si possono ammazzare quattrocento nemici in pochi istanti; ma non succede neppure come l’11 Settembre dove un mostro fa una strage fuori da ogni immaginario, al di là di ogni comprensione umana e divina. L’iperbole nel poema omerico per quanto audace e straordinaria come deve essere nella poesia eroica è saldamente legata alla realtà e non si dimentica di essa, non sconvolge i valori. Essa segue comunque un ritmo. Il ritmo della tragedia ma quella di Aristotele che prevedeva insieme alla catastrofe anche l’esodo, l’elaborazione del lutto; quella che seguiva il ritmo lento e affannato di un’anima e che in questo ritmo trovava il senso della vita e della morte. L’Epopea di Omero nell’Iliade è quasi sempre temperata, tenuta a freno da una consapevolezza melanconica sulle umane debolezze, sulle miserie dell’uomo, sulla coscienza e la comprensione delle sue fragilità. E’ questa la grande capacità di Omero e di questo testo che intreccia nel modo più profondo l’universalità, l’eternità e la grandezza dell’uomo alle sue bassezze, alle miserie, alle debolezze. C’è una continua e lunga riflessione sul rapporto tra la vita e la morte come quella che avviene nel memorabile dialogo tra Achille e Priamo dove il giovane e fiero guerriero condivide con l’anziano sovrano di Troia la triste consapevolezza che la vita dell’uomo è dominata dal dolore. Achille e Priamo parlano lo stesso linguaggio nonostante siano vincitore e vinto, condividono i medesimi valori. Di fronte a questo incontro emotivamente intenso la guerra si ferma. Le atrocità sono fuori dalla narrazione che vive invece il Pathos dei protagonisti, i ricordi, il comune senso della fragilità dell’esistenza. Gli eroi forse sono tali e degni di questo nome proprio perché hanno quello che a volte gli umani hanno perso o dimenticato di avere: l’UMANITA’. La scena adesso è tutta presa dal rito funebre solenne e grandioso: davanti a noi c’è il rogo nel quale si consuma il corpo di Ettore. Insieme a lui bruciano e tramontano regni ed eroi, ambizioni e passioni, miserie e grandezze. E così il poema della guerra che è iniziato con l’ira feroce di Achille, con il suo urlo impetuoso e vitale, termina nel silenzio desolato e malinconico di una tomba.
Cristina Ricciardi
Cristina RicciardiMemoria e coscienza del presente nell’attuale stagione artistica di Bruno Di Pietro, 2010
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Quando si pensa all’opera di Bruno Di Pietro – artista vivace e complesso nella sua poliedrica natura di pittore, scultore, incisore, poeta – ci si richiama immediatamente ed inevitabilmente, a quel colossale impegno, condotto con grandi esiti e durato quasi venti anni (a partire dagli anni Ottanta), sulla rilettura dell’epica omerica dell’Iliade, laddove egli realizza un’esperienza artistica di straordinaria compiutezza, di originale sintesi espressiva e di intelligente sensibilità poetica. “L’Iliade e la leggenda Troiana”, a cui egli arriva dopo una lunga esperienza di pittore, avviata dalla metà degli anni Sessanta, ha costituito, dunque, nel percorso di Di Pietro, una fase importantissima, da cui non si può prescindere, catalizzando a lungo tutte le sue attenzioni ed energie, definendosi in un poderoso costrutto poetico evidenziato da lavori di ampio respiro: numerosi dipinti ad olio di grande formato, disegni, sculture in marmo bianco di Carrara, in pietra della Maiella, in bronzo e in acciaio, ripetutamente esposti in contesti importanti e significativi, quali il MUMI (Museo Michetti) di Francavilla al Mare, la Mole Antonelliana di Ancona, il Castello Cinquecentesco di L’Aquila, L’Università d’Annunzio di Chieti. Il tema del “passato”, come luogo primordiale in cui è possibile rinvenire le tracce ed i segni di un trascorso, prosegue nei primi anni del Duemila, in ricerche che vertono sul principio mnemonico dell’“impronta”, che si associa ai postulati tecnologici di un futuro già in atto, tanto veloce nelle sue logiche consumistiche da apparire già cessato allorquando si manifesti, come è dato vedere nelle opere su lastre di alluminio, intitolate “Impronte primordiali”, a cui si accompagna la pubblicazione della raccolta poetica TheŌrêin, pubblicata dall’artista nel 2008, edizioni Tracce. Dal “mito” al “primordiale”, direi fino alla coscienza del confine delle cose finite, si giunge all’oggi, sul crinale di una nuova frontiera che assorbe la riflessione attuale dell’artista e segna il suo presente in atto, e cioè quello di chi dopo tanto lavoro, sente di doversi fermare sulla nuova soglia di un presentimento in cui entra in gioco la percezione del limite. Il motivo paesaggistico, già trattato nelle opere degli anni Settanta ed Ottanta, viene ripreso alla luce di nuove considerazioni che affrontano il tema dell’universo e della sua creazione in rapporto alle perimetrazioni naturali ed indotte che sempre si generano, sia a livello di demarcazioni fisiche, sia sul piano della cultura e più in generale del pensiero. Ultimo sviluppo dell’attuale produzione artistica, raccolta sotto il titolo “Confini”, precisazione della piena maturazione del linguaggio di un artista che occupa un posto di significativo rilievo nella storia della pittura in Abruzzo, è una serie molto interessante di dipinti in cui predomina il tema naturalistico di sintetiche vedute boschive, ritmate dalla modulazione fluttuante degli alberi, immagini generalmente poste in relazione ad una strutturazione trittica che rafforza quel principio di vitale spiritualità contenuto nei processi della Natura, contrapposto alle istanze aggressive ed ignoranti delle società dei consumi. Si tratta di visioni intense che generano una forte emozione, in cui si precisa una altrettanto grande esperienza tecnica, importante parimenti alle elaborazioni del pensiero, giacché questa entra nel merito della qualità dell’opera, concorrendo al suo portato estetico ed alla sua bellezza. La serie dei lavori dedicati al tema dell’“albero della vita” ci offre formulazioni di rigorosa sintassi formale, risultante di una esecuzione lunga nei suoi passaggi e complessa nella sua elaborazione, al fine di ottenere una pasta cromatica aggettante, con il colore tirato a spatola e l’utilizzo di bianco di zinco e di titanio misto ad oli crudi di lino e di papavero, mentre altre fasi tecniche sopraggiungono a definire il disegno, attraverso la “ripulitura” delle forme e il complesso intervento di essiccazione e di trattamento del colore. Si tratta, quindi, di opere su tela in cui l’anima dello scultore sembra incontrare quella del pittore, plastopitture che vivono e partecipano della contaminazione con altri materiali come le plastiche nere, i led luminosi, il metallo di improbabili meccaniche che riferiscono di umane condizioni di inquinamento e di offesa alla natura. L’amaro costo del benessere e la violazione che l’uomo perpetua alla terra, nell’eccessivo sfruttamento delle sue risorse e nell’avvelenamento dei suoi elementi, è un tema molto caro all’artista che si sente profondamente partecipe in questa denuncia. Va anche detto che il soggetto paesaggistico e l’attenzione verso gli elementi della natura lo avevano già coinvolto sin dalle prime opere giovanili. Ma il senso di questa matura riflessione di panorami boschivi trasposti in equivalenze concettuali, aggiunge una nota diversa che ben si definisce nella fitta vegetazione dei tronchi di alberi scanditi con un ritmo che non ha nulla a che vedere con l’osservazione diretta manifestata nei trascorsi lavori a tema paesaggistico. Questi attuali lavori di Bruno Di Pietro si qualificano come una sorprendente frontiera tra la memoria e la coscienza del presente. Prevale in essi un senso fortissimo della nostalgia, intesa letteralmente come “dolore del ritorno”, sentimento della perdita del passato come luogo delle cose familiari e delle cose che avrebbero potuto essere. Rimpianto di una patria lontana a cui si accompagna il non meno tormentato senso di estraneamento che gli regala il presente. I suoi boschi sono dunque la materializzazione della sua attitudine al ricordo, ed è lui stesso che ce ne riferisce: «Ancora mi porto addosso quel senso e quella natura fatta di spazi puliti e luminosi, incontaminati da pesticidi e discariche, quel sentirmi libero tra i verdi, i colori e le ombre … Oggi tutto questo non è più mio e rimbomba nella memoria come immagini provenienti da un passato remoto». Sappiamo bene che la rievocazione del passato non può non generare dolore, ma qui non si tratta del desiderio di far rivivere il tempo trascorso, quanto piuttosto di qualcosa di molto più profondo. I suoi alberi tagliati, quasi fotograficamente, delle radici e delle cime più alte – come a dire della percezione del passato e del futuro – accennano al controllo del trasporto emotivo che l’artista attua nel suo presente, abitato dalla dimensione della nostalgia, soglia e confine tra il senso di una realtà che si è compiuta, e dunque il sentimento delle cose finite, e l’intendimento di quell’infinito che è dentro e fuori di noi, che l’età matura oggi gli regala. Le sue visioni di cortine arboree – si pensi ai fitti boschi intesi come elementi di chiusura, frontiere naturali di una demarcazione territoriale – tornano come metafore di un “confine” – come appunto ricorda il titolo di questo ciclo di lavori – tra l’impossibilità del passato come rimpianto dei luoghi e l’incertezza verso un futuro fortemente condizionato dalle logiche di mercato. Il tema dell’albero, a cui l’artista ricorre, è estremamente affascinante essendo uno degli elementi simbolici più importanti, rappresentato da tutte le grandi civiltà. Dall’immagine biblica dell’“albero della vita”, si è sempre accompagnata ad esso l’idea ciclica della crescita-evoluzione, per via delle radici sprofondate nella terra e dei rami proiettati verso il cielo, simbolo senza tempo di vita eterna e di rigenerazione: una divina triade di passato (radici), presente (fusto), futuro (rami) che l’artista torna a sottolineare più volte nella modulazione trittica con cui volentieri organizza la strutturazione dei suoi attuali lavori. Affermava Paul Gauguin: «Non copiate troppo la realtà, l’arte è un’astrazione, ricavatela dalla natura sognando in sua presenza e pensate più alla creazione che al risultato». Guardando la particolare iconografia dei paesaggi boschivi di Di Pietro viene da pensare all’esperienza simbolista dei faggi dipinti da Maurice Denis, all’influenza esercitata alla fine dell’Ottocento dalle stampe giapponesi, alla emotività primitiva dei paradisi terrestri di Gauguin, alle fitte trame di alfabeti segnici evocati dagli intrecci dei rami di Piet Mondrian che non ha mai considerato l’arte come un esercizio puramente visivo. E la mente si richiama al fascino secessionista e decadente di un’opera quale Bosco di faggi di Gustav Klimt che, lontano dalla rappresentazione, cercava della realtà solo la sua evocazione. E ritornano i pioppi dipinti a Limetz da Claude Monet, disposto a pagare purché questi non fossero abbattuti, laddove la realtà appare tutta contenuta nell’effetto cangiante dei loro riflessi sull’acqua… Così le visioni boschive di Bruno Di Pietro, fatte di materici alberi nudi, con le linee serrate dei tronchi a strutturare tutta la composizione, non scaturiscono dall’osservazione diretta della natura, ma dalla memoria filtrata attraverso il gioco della sintesi mentale, con un processo plastico e pittorico che guarda all’evento visivo, alla vera essenza delle cose, congiuntamente all’emozione del loro ricordo. Va anche osservata la sua tendenza antinaturalistica che si appunta su colori violenti o sul gusto monocromo del bianco, da riconnettere sia ad una volontà calcificatrice, quale traccia superstite delle cose che un tempo sono “state”, materializzazione stessa del “silenzio” – come ci suggerisce il grande pittore russo Vasilij Kandinskij – sia ad un principio igienizzante contrapposto agli sconfinamenti neri delle plastiche (e dunque del petrolio), cupe ombre, metafora di ogni inquinamento e di tutte le logiche sprezzanti del potere. L’atmosfera che si registra nei fitti, sinuosi e scabri tronchi delle sue foreste mnemoniche è dettata dallo stretto spazio delle intercapedini dei fusti, scanditi con senso ritmico ed incalzante, dall’assenza di qualsiasi illusione di profondità. Un senso di afasia, di aria rarefatta, di assenza di ogni riferimento e di mistero per il nulla che appare dietro di essi, ci riporta al punto centrale dell’esperienza intima della natura posta in campo dall’artista, in cui gioca un ruolo essenziale l’equilibrio sempre instabile delle luci e delle ombre rapprese dentro gli impasti della materia stessa del colore, nello scavo continuo che egli opera dentro di sé. In uno spazio necessariamente fuori dal tempo prendono così vita le sue ermetiche e bianche foreste, pietrificazioni fantasmagoriche, che ci invitano a riflettere sulle condizioni spaesanti dell’assenza e della perdita, sull’impronta assai amara delle cose destinate a scomparire. (Chieti, settembre 2010)
Antonio Farchione
Antonio FarchioneMiti... lo spettro del futuro, 2005.
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L’epoca nella quale viviamo ci subissa continuamente di stimoli sensoriali e non il cui fine è quello di stupirci e crearci una sorta di dipendenza da shock. In questa amalgama di stili, di design, di mode, si spettacolarità, l’opera di Bruno Di Pietro quanto mai desueta. In realtà, a ben guardare, siamo di fronte a dei lavori che riescono a ritagliarsi una nicchia comunicativa nel panorama orgiastico a cui siamo abituati. L’espediente di cui Di Pietro si serve è il tempo. Attraverso l’apparente narrazione dell’Iliade, fa leva intelligentemente sul mito e sulla sua peculiarità di non citare mai quello che è accaduto nella notte dei tempi, ma quanto, invece, accadrà più in là. Il tempo dell’opera di Di Pietro non è quindi lineare, non è scandito dal ticchettio dell’orologio, non è frutto di una sequenza temporale costante ed omogenea. I miti di Di Pietro sono un monito per la nostra epoca, per la nostra esistenza, impegnata a vivere un presente flaccido all’insegna della negazione a tutti costi di un futuro che vedrà certamente la nostra fine. Per noi occidentali è importante, se non anche fondamentale, che il tempo sia scandito da un qualche strumento come un calendario, un orologio; guai a perdere di vista la quantificazione del tempo ed allora la cadenza temporale è scandita da un prima ed un poi. Quando si misura il tempo, si fa riferimento generalmente ad un evento che si è verificato nell’ora, nel momento in cui si “legge” l’ora; non prendiamo in considerazione quanto tempo è durato l’evento. Il tempo dell’opera di Di Pietro ricorda in un certo senso il pensiero di Martin Heidegger1. L’intuito del grande filosofo è stato quello di affermare che l’uomo non è collocabile nell’asse temporale, l’essere umano, in quanto tale, è il tempo stesso. Il tempo di Heidegger non ha lunghezza, non ha neppure senso misurarlo. Nel momento in cui l’uomo, che è egli stesso il tempo, utilizza strumenti fisici, per esempio gli orologi, per misurare il tempo, finisce per perdere il tempo. Per Heidegger, come per Di Pietro, è quanto mai inadeguato misurare il tempo, perché l’esistenza dell’uomo si protende verso il futuro. L’opera di Di Pietro è come una macchina del tempo che vuole stupire lo spettatore, interrompendo la “sacralità” della sequenza temporale, catapultandolo in un mondo mitologico. Di Pietro, con questo espediente, mette a nudo le debolezze di un uomo che anziché concepire la sua futura esistenza, e quindi anche la sua fine come un momento certo ma indeterminato, finisce per voler determinare un tempo che è, invece, non determinabile. Di Pietro innesca con le sue opere “oracolo”, un dialogo con un uomo contemporaneo che cerca di fuggire il suo destino ultimo, che distoglie la sua attenzione dal futuro, che focalizza la sua attenzione sul presente. L’uomo, a cui Di Pietro si rivolge, quantifica il tempo presente che gli rimane, e sceglie di “prendersi cura” del tempo presente che sta vivendo nella speranza di eludere la propria morte. Del resto già lo stesso Heidegger parlava dell’uomo come di un essere che si annoia nell’atto stesso di riempire le sue giornate, ed allora le giornate scandite dall’orologio si dilatano, diventano lunghe e noiose, ciò che conta è andare alla continua ricerca di qualcos’altro da fare, da vedere per riempire il tempo presente. L’attaccamento morboso alla misurazione del tempo ed in particolare del tempo presente, finisce per far perdere di vista il passato, considerato irrecuperabile ed il futuro che, di contro, è indeterminato. Riuscirà l’uomo a fuggire dalla gabbia del presente in cui ogni attimo è scandito e ogni cosa guidata solo ed esclusivamente da una serie di interpretazioni, dalle mode, dalle opinioni, ecc.? E, soprattutto, riuscirà l’uomo a riscoprire il passato? L’uomo La pittura, così come l’opera scultorea di Di Pietro, sintetizzano egregiamente la condizione dell’uomo odierno intrappolato nel suo presente con tutti i problemi, ma anche le paure e le angosce che lo attanagliano confinando la sua esistenza nell’ambito di una quotidianità vorticosa, avida, vorace. Di Pietro racconta la società odierna attraverso una rappresentazione onirica nella quale i miti dell’Illiade diventano metafore del tempo presente. Il viaggio di Di Pietro nel passato è alimentato da una serie di variabili genuine come la coscienza, ma anche i sentimenti, la memoria nelle sue diverse forme (visiva, uditiva, ecc.). Il risultato è una rappresentazione materica, ma anche precisa nei tratti ed assai curata nei particolari, in cui il mondo umano, quello animale ed inanimato si fondono, creando delle creature originali. L’idealizzazione del presente avviene attraverso una sequenza di immagini statiche, in cui anche le scene di guerra sono colte un attimo prima del momento cruento. Il mondo che rappresenta Di Pietro è a tratti asettico, volutamente ripulito di quel vorticoso impianto emotivo che, invece, caratterizza l’esistenza umana. L’angoscia dell’uomo frustrato e lasciato solo con i suoi problemi si legge in “scene di battaglie” senza il tumulto della battaglia. Ed allora Aiace, Achille, Ettore diventano la metafora dell’uomo contemporaneo annoiato da una routine quotidiana sempre più insidiata da una serpeggiante sfiducia esistenziale, una sfiducia nelle proprie capacità e quello che peggio una sfiducia anche negli altri. Questo quadro non può che produrre nell’uomo una forte ansia, ma anche un atteggiamento sospettoso e tendente a diffidare di tutto e tutti, nonché a cercare i responsabili di certe azioni, a reagire anche in maniera violenta. Gli eroi di Di Pietro spesso goffi, riccamente ornati, dall’aspetto opulento, sono di fatto la satira di un’epoca, quella contemporanea. Eroi temerari del passato che lottavano per gli ideali, che fanno il verso agli uomini contemporanei pieni, invece, di paure, di angosce, di frustrazioni, di insicurezze, di ansie, di depressione, e di ogni altra sofferenza che, di fatto, tendono a degenerare in patologie in quanto esperienzevissute in piena solitudine. Di Pietro è sensibile a questo dramma dell’uomo presente, è consapevole che l’uomo del presente, troppo preso dal quotidiano del suo dramma, non guarda al futuro, non vive per il futuro perché il futuro dell’uomo contemporaneo è niente più che l’istante successivo all’attimo appena trascorso. Di Pietro scegliere l’ironia per comunicare comunque la sua voglia di reagire e così utilizza nella sua pittura così come nella scultura dei testimonial dell’Illiade, li caricaturizza, li ambienta in spazi vuoti. Le armi Colpiscono di questi personaggi due cose ovvero: la dotazione delle armi e lo sguardo. I personaggi di Di Pietro sebbene siano stati valorosi combattenti, non vengono rappresentati in atti violenti ma ostentano comunque armi acuminate, borchie, scudi, ecc. che sembrano essere un tutt’uno con i corpi degli eroi. La rappresentazione onirica di Di Pietro è mediata dalla sensibilità e dalla coscienza dell’artista stesso il quale è consapevole che la violenza in quanto tale non è la soluzione dei problemi ma l’alimento prediletto di altra violenza. Le armi degli eroi sono allora esse stesse simboli. L’arma anche quando viene utilizzata come strumento di difesa è comunque l’espressione di un atto crudele della coscienza dell’uomo che in questo modo tiene distante la morte. Il punto è proprio questo: quelle armi, quelle punte offensive sono quasi l’inventario di tutte le sfumature di crudeltà di cui è capace l’uomo. Crudeltà non solo di ordine fisico che, comunque, portano l’uomo ad aggredire per difendersi, ad uccidere per rimanere in vita, ad offendere per compiacersi, a tradire per nascondere le proprie debolezze, ecc. Le azioni di crudeltà sono in una sola parola gli espedienti che l’uomo mette in campo per occultare ciò che Heidegger chiama “il carattere indeterminato della certezza del non più”. Purtroppo l’essere umano oggi più che mai vuole segregare una verità sacrosanta: la mortalità del proprio corpo. La combatte nella maniera più discutibile. Si affanna a fare qualunque cosa che riempia la propria quotidianità. Si illude di sopraffare l’ineluttabile impegnandosi a combattere e spesso a vincere battaglie balorde come l’estetica del proprio corpo, il successo lavorativo, l’isolamento di extra comunitari, ecc. Gli eroi di Di Pietro sono quindi l’immagine speculare e grottesca di un uomo contemporano energizzato per anni da forte dosi di sicurezza personale. Questo eccesso di emozioni, di sentimenti, di sicurezze avrebbero dovuto rappresentare l’armatura più idonea per affrontare le minacce della quotidianità. Purtroppo le stesse “armi di difesa” stanno minando la staticità dell’essere umano, che sta crollando sotto il loro peso: la lotta per la sicurezza e la certezza si fa sempre più difficile, le vittorie sono sempre meno, l’individuo si sente abbandonato a se stesso. In questo stato di abbandono e di debolezza fisica e soprattutto psichica, l’individuo odierno è spinto a “ripulire” il campo di battaglia da tutti i resti prodotti dal suo rovinoso collasso. Si tratta di frammenti psicologici deformati, divelti, scaraventati lontano dalla forte pressione esercitata da una ricerca di sicurezza e certezza ad ogni costo. Di Pietro aiuta simbolicamente l’uomo a raccogliere e smaltire codesti frammenti attraverso la realizzazione di statue, rappresentanti gli eroi dell’Illiade, frutto di assemblaggi di materiali ferrosi e non, salvati dallo smaltimento o dalla sicura corrosione dell’atmosfera. Ogni pezzo ha la sua storia, ogni pezzo aveva la sua funzione d’uso, ogni pezzo aveva significato solo come parte di un tutto. Ora quei frammenti pur serbando una storia che mai potranno raccontare ma che possiamo forse solo immaginare, vengono re-interpretati dall’artista che li accosta l’uno all’altro come se fossero pezzi di un puzzle. Ogni singolo pezzo viene mortificato e costretto a recitare un copione a lui nuovo. Quei frammenti-psicologici che avevano originariamente il compito di infondere sicurezza e certezza nell’essere umano, sono ora condannati a subire la dirompente forza del caos. Ancora una volta il risultato di grande effetto è la realizzazione di figure antropomorfe che ironizzano sulla condizione umana e la sua epoca, rimandando la memoria dello spettatore più attento all’inquietante, quanto famoso automa “Contergangeneral” di Daniel Spoerri. Lo sguardo Un altro aspetto non meno interessante che colpisce nelle opere di Di Pietro sono gli sguardi degli eroi. La staticità della postura enfatizza ancor di più l’attrattività degli occhi. Sono occhi quasi sempre inquietanti a differenza di quelli degli animali dalle forme più dolci ed aggraziate. Il dialogo visivo tra gli eroi e lo spettatore è quasi inevitabile. Gli eroi ci guardano, li guardiamo. L’espediente pittorico è efficace, sembra quasi riesca ad intrattenere un dialogo visivo oltre che mentale con lo spettatore. Gli sguardi dei personaggi sono sempre carichi di tensione, forse di rabbia, e comunque capaci di trasmettere immediatamente uno stato d’animo irrequieto, iracondo. In maniera più esplicita viene confermata quella crudeltà o forse anche quella crudezza di uno status umano instabile. Quello sguardo contrasta con il corpo degli eroi quasi caricaturale. Tutti i particolari sono, però, molto curati in maniera maniacale. Le linee sono precise senza sbavature. Tutto sembra perfetto, ogni cosa è al suo posto, sembra quasi di essere di fronte ad un set fotografico già perfettamente allestito dall’artista, allo spettatore non rimane che scattare la propria foto ricordo. Tutto così perfetto da sembrare irreale. La disposizione calcolata delle figure mette un po’ a disagio e ancor di più sentendoci osservati da quegli occhi. Sembra quasi di entrare in una abitazione dove l’ordine e la perfezione della dislocazione degli oggetti ci affascina ma nello stesso tempo di imbarazza, ci fa sentire inopportuni, ci fa temere di rompere con un qualche movimento di troppo un equilibrio ambientale curato, ma anche fragile. Sì, è proprio questo il punto, quella precisione che si rinviene nelle opere di Di Pietro pone lo spettatore in uno stato di disagio, perché rappresenta una realtà forzata, apparente, ammaliante, ma anche fragile, controllata, capace solo di distogliere l’attenzione dell’osservatore dai veri problemi del suo essere uomo. Del resto la società odierna non sta anestizzando la nostra coscienza, la nostra condizione di esseri umani, proponendoci soluzioni perfette in grado di aggredire qualunque problema, o quasi, dall’esterno, lasciando, però, che la sostanza dello stesso incancrenisca nel silenzio e lontano da un mondo fatto di illusioni. Un mondo dove morte e dolore vanno banditi fino a quando la scienza non riuscirà a dimostrare di essere in grado di sconfiggerli per sempre. Fino a quel momento, però, meglio occuparsi di altro, meglio diventare prigionieri del presente, meglio appagare ed appagarsi dietro una rappresentazione della propria vita fatta di illusioni: ci si impegna a concentrare tutta la propria attenzione su di un io nudo e soprattutto sempre più vuoto, ed allora meglio riempire ogni attimo del quotidiano a vestire di inutile il vuoto. L’uomo raccontato da Di Pietro finirà per maledire quell’apparente dominio che ha sulle cose e sulla propria vita, e sarà aggredito da quella stessa tristezza, quella angoscia, con le quali doveva convivere Achille per via di una semi-immortalità non voluta.
Raffaella Cordisco
Raffaella CordiscoAi Confini del Creato - Presentazione della personale c/o ex Aurum, Pescara, Gennaio 2010
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Sessanta opere organizzate sulla base dei lavori dell’ultimo periodo artistico, dal 2005 al 2010, tra sculture, tecniche miste, oli su tela e composizioni. Dopo Milano, Parigi, Bruxelles e Monaco di Baviera, a due anni di distanza dall’ultima mostra nella città di Pescara, Bruno Di Pietro torna ad esporre nella splendida struttura dell’Aurum - La fabbrica delle idee, uno straordinario edificio storico ormai noto su scala nazionale. La definizione più corretta per Bruno Di Pietro non è quella di pittore ma piuttosto di un ricercatore dell’arte, un sensibile, instancabile e poliedrico artista, la cui intensa attività ha portato alla classificazione di sette periodi ben definiti, dal 1965 fino al 2011. Il risultato dell’esplorazione fondata su oltre quarant’anni di attività artistica tra l’Italia e l’Europa, è oggi raccolto nel catalogo legato alla mostra, edito da Ianieri, a cura di Simona Clementoni. La Mostra è a cura di Raffaella Cordisco, in collaborazione con l’associazione culturale Pescara Art Evolution (PAE). Monografia di Bruno Di Pietro, Ianieri Editore, Fondazione Pescarabruzzo, Pescara 2011. Italiano e inglese con testi di Armando Ginesi, Corrado Gizzi, Cristina Ricciardi, Simona Clementoni. La mostra focalizza l’attenzione sull’ultimo di questi periodi, dal 2005 al 2010, un momento nel quale l’artista rielabora le più significative opere tra gli anni ’70 e ‘80, illustrando la nuova serie dei Confini, intesi come fisici o metaforici. Si tratta di trittici eseguiti con tecnica mista, la pittura è ampiamente gestuale e soprattutto materica, una tecnica che richiede lunghi tempi di realizzazione, come spiega dall’artista nel catalogo della mostra. Molti lavori esposti nella Sala Michetti sono eseguiti a spatola su tela, con l’impiego del bianco di zinco e di titanio, misto ad olio di lino e di papavero, elementi che favoriscono quel finissimo effetto di rilievo. Per realizzare un olio su tela delle dimensioni di 100x100, i tempi di lavoro si aggirano attorno ai 60/80 giorni d’estate e 100/120 giorni in inverno. Di questa stessa serie fanno parte delle opere con motivo paesaggistico che passano attraverso la rivisitazione di un tema degli anni ’80, particolarmente caro a Bruno Di Pietro: la natura, il paesaggio di un bosco fatto di fitti alberi dalle cime alte, serrati tra di loro, frutto dell’osservazione diretta del creato, e di ricordi forse nostalgici di luoghi familiari, per un universo che sembra non esistere più, contaminato dall’azione umana. Inoltre, l’albero è carico di significati, di metafore e allegorie, dove realtà, sogno e mistero si mescolano. L’albero è simbolo della vita in tutte le sue accezioni: è presente nel Cielo, nella Terra e negli Inferi; c’è l’idea del tempo che è sfidato dalla sua longevità; c’è la valenza ecologica, poiché gli alberi forniscono ossigeno; l’importanza dell’albero come ecosistema per molte specie di animali, ma anche una presenza protettiva per l’uomo, un luogo di ricerca e riflessione, persino nei confronti di una cattiva coscienza ecologica dell’uomo. L’opera Marea nera del 2010, esposta all’Aurum, ad esempio riflette sui danni apportati dall’uomo verso la natura, riferendosi al recente disastro ecologico causato nel Golfo del Messico, un luogo che vive basandosi sulla pesca e sul turismo, con la conseguenza di migliaia di animali morti. In questa opera, un olio su tela e tecnica mista, Di Pietro rivive e interpreta la fuoriuscita del greggio che ha causato la catastrofe. Rosso lavico del 2010 è invece un trittico con un’idea ben precisa, la stessa di numerose altre opere costruite in una simile maniera, uno schema compositivo pulito, lineare, simmetrico. Spiega l’artista che l’idea dell’opera è suggerita dal numero biblico e perfetto, il tre, nel senso cristiano del termine.
Simona Clementoni
Simona ClementoniIn viaggio tra i paesaggi di Bruno Di Pietro, 2012.
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Avventurarsi nelle acque perigliose del vasto e proteiforme universo artistico di Bruno Di Pietro comporta il concreto rischio di smarrirsi, qualora non si tenga ben saldo il timone e non si punti dritti alla meta. Una metafora per comunicare il senso della difficoltà di avvicinarsi alla sua enorme e variegata produzione, volendo rendere conto di tutto, ma consci dell’impossibilità di farlo per la prolificità di un artista alla costante ricerca di nuove soluzioni espressive e determinato a lasciare un’“impronta” nel panorama artistico contemporaneo. Dunque dirigerò lo sguardo al mio obiettivo: condurre il lettore attraverso una più consapevole fruizione di uno degli aspetti della produzione di Bruno Di Pietro: il paesaggio, nelle sue molteplici accezioni e nella sua costante evoluzione, cogliendo solo marginalmente ciò che in questo tema confluisce senza però addentrarmi in meandri che, per quanto piacevoli ed allettanti, fuorvierebbero l’intento del mio “viaggio”. Bruno Di Pietro nasce a Ripacorbaria di Pescara il 4 giugno 1947. Solo tre anni dopo la sua nascita, i genitori emigrano in Argentina. Al ritorno in Abruzzo, si stabiliscono in una tranquilla borgata di campagna, non distante da Chieti, da cui l’artista attinge quel rispettoso amore per la natura incontaminata che lascerà una traccia indelebile nella sua pittura. Manifestando già a scuola la sua passione per il disegno e l’acquerello, affresca con scene di caccia e paesaggi le pareti della casa paterna e di amici; un chiodo al muro è il suo primo cavalletto; il sottoscala, ingombro di scaffali e damigiane, è il suo atelier. Lì nascono i primi dipinti a vernice industriale su tavola e successivamente oli su tela (che l’artista espone in estate sui marciapiedi del lungomare di Francavilla, Pescara e Pineto), paesaggi in estemporanea e i primi cavalli, la cui passione, nata presumibilmente dalla lettura dei fumetti di Tex Willer, si approfondisce grazie alla frequentazione dello zio Giustino, maresciallo dei carabinieri e insegnante di equitazione. È il 1965, anno in cui Di Pietro segue anche un corso di disegno e prospettiva per corrispondenza. Nel 1968, l’artista va militare in Sardegna dove, secondo quanto riferisce il Generale Francesco Mazzola, vice comandante della base N.A.T.O. Aeronautica di Decimomannu a Cagliari, si decide di concedere all’aviere Bruno Di Pietro uno spazio nel suo tempo libero affinché possa dipingere, come da lui richiesto. Poi, in accordo con i comandi Canadesi e Tedeschi, al Circolo Ufficiali/Sottufficiali della stessa base, viene allestita una mostra dei lavori da lui realizzati: circa 15 oli su tela e vari collages di guerrieri nuraghi sardi rappresentati su sezioni di tronco di sughero. Questo primo periodo, che va dal 1965 al 1970, vede la realizzazione di soggetti eterogenei eseguiti con tecniche miste, ma prevalentemente a spatola: preziose nature morte, raffinati ritratti (tra cui l’ipnotizzante Donna con mazzolino di fiori), paesaggi naturali e architettonici (si vedano la Chiesa di Sant’Antonio da Padova e la Roma dei Fori Imperiali) e il suo più piccolo paesaggio marino di pescatori, una miniatura ad olio su tela di cm 2x2. Nel 1970 Di Pietro si trasferisce a Milano in cerca di opportunità lavorative. Nella città lombarda frequenta l’Accademia di Brera (sezione nudo) diretta dal professor Pompeo Borra e successivamente stipula un contratto con la Galleria “Antiquaria delle Orsole” sita in Piazza Affari, nel cuore pulsante di quella Milano che Indro Montanelli definì la “capitale europea dell’Arte”. Sono anni rutilanti che vedono l’artista protagonista di numerose mostre personali e collettive con grandi maestri quali Guttuso, Fontana, de Chirico, Migneco, Dova e Bay. Insignito di prestigiosi premi e riconoscimenti per la sua poliedrica ecletticità e per la sua instancabile curiosità, nel 1972 l’artista si trasferisce a Parigi dove, partecipando a collettive con giovani artisti americani, viene recensito sulla Revue Moderne dal professor Montoya che – sottolineando la “fattura impressionista” delle sue opere, in cui la stilizzazione si accentua fino ai limiti della realtà anatomica (come nei suoi celebri “Chevaux”) – paragona l’intensità della sua pittura a quella di Albrecht Durer. Mentre prosegue il suo peregrinare per l’Europa (Bruxelles, Saint Moritz, Portofino, Venezia e poi di nuovo Milano), Di Pietro arricchisce il suo carnet di illustri conoscenze e frequentazioni artistiche. A Parigi apprende la tecnica della serigrafia e dell’acquaforte, ma si avvale anche di tempere al latte per dipinti a olio su tela prevalentemente realizzati in estemporanea. La produzione artistica del secondo periodo (1970 - 1985), incentrata su una personale fusione di Impressionismo ed Espressionismo, si estrinseca in opere dalle più svariate tematiche. Dalle caravaggesche nature morte ai pittoreschi, malinconici e poetici clown; dagli eleganti e superbi ritratti ai lievi bouquet di fiori; dagli scalpitanti, scattanti, quasi surreali cavalli all’amorevole vigoria arcaica dei suoi pastori e contadini abruzzesi; dalle composizioni sacre alle drammatiche icone del volto scavato e sofferente di Cristo in croce. Un’attenzione particolare è rivolta però al paesaggio naturale: dalle rive della Senna, agli offuscati scorci della laguna veneta, alle pinete di dannunziana memoria in cui colpisce già quella peculiare scarnificazione degli alberi, ridotti all’essenzialità del sottile fusto proteso verso l’alto, ma caparbiamente “vivificati” con l’applicazione di collage di variopinti uccelli e delicate farfalle. La profonda nostalgia per il paesaggio luminoso ed incontaminato della sua adolescenza pescarese, il rimpianto per quelle idilliache campagne dalle lucide zolle solcate da pariglie di bianchi buoi, il ricordo dell’odore dell’erba fresca appena tagliata, dell’acqua limpida e saporita del fiume Pescara che scorreva tra pietre chiarissime e aguzze, si accompagnano al tormento interiore, all’angoscia rabbiosa per la progressiva perdita di quel paradiso annullato dal cemento, profanato da impietose luci artificiali, dilaniato dalla smania del profitto. L’ostinata perseveranza nel fermare sulla tela quelle sempre più sbiadite visioni di una bellezza violata subisce una battuta d’arresto per la confluenza di circostanze che, innescandosi sulla sua coscienza già in crisi, determineranno una radicale svolta nella sua produzione. L’impatto emotivo dei tragici eventi del conflitto del Vietnam, che l’artista aveva già “respirato” ai tempi del suo servizio militare nella base N.A.T.O di Cagliari, e che denuncia nel dipinto Messaggio di Pace, si esprime nel potente simbolismo del soldato americano ferito e dell’afflitta mamma vietnamita che stringe tra le braccia il figlioletto dalla piccola mano mutilata che si protende verso la bianca colomba sullo sfondo di un plumbeo cielo. Il colore della pelle della mamma e del bambino, intenzionalmente neri a dispetto della loro nazionalità, universalizza la sofferenza e la brutalità di tutte le guerre, siano esse coloniali o razziali. Ai due predetti fattori si sommano i dubbi dell’artista sul valore della propria arte; un senso di inadeguatezza che si acuisce al confronto con le nuove tendenze artistiche di cui prende forte coscienza soprattutto a seguito della visita di Andy Warhol a Milano. Attraverso tre consecutivi periodi dedicati al tema dell’Iliade e alle leggende della guerra di Troia – prima (terzo periodo: 1985 - 1995) con la realizzazione di lavori ad olio su tela, poi (quarto periodo: 1995 - 2000) di sculture in acciaio, ferro, bronzo, marmo di Carrara, pietra della Maiella, plex, legno, spade, monili, boccali, oro e varia gioielleria (per i lavori di “riciklokomposart” rappresentanti il tesoro di Priamo), proseguendo con la figurazione di “Aedi” o rapsodi, sempre inerenti al tema omerico – Di Pietro trova un modo inedito di esternare quell’impellente necessità di dare nuova linfa alla propria creatività. Incentivato dal suo amore per l’archeologia e tramite una grafica ben definita, una nitida simbologia e la personalissima tecnica di asporto del colore, in cui la forza segnica prevale su quella cromatica, l’artista riesce a “rileggere” in chiave moderna e surreale uno dei più grandi classici di tutti i tempi. (I lavori del terzo e quarto periodo sono pubblicati nel catalogo Épos – L’Iliade, tra miti e leggende, edito da Artemisia, Falconara Marittima). Nel 2005, non ancora appagato, fermamente convinto che l’artista non possa e non debba mai porsi dei limiti, Di Pietro allarga i suoi orizzonti visivi: dal microcosmo, dal paesaggio vegetale, animale, umano e architettonico, si proietta nel macrocosmo, negli spazi interstellari, realizzando circa 200 lavori ad olio e tecnica mista su lastre di alluminio dalla tematica iperspazialista (sesto periodo: 2005 - 2008). Denominate “Impronte primordiali”, queste opere vengono in parte pubblicate nel volume TheŌrêin, raccolta di “sensazioni, riflessioni, emozioni, brani, massime e poesie” dello stesso autore (ed. Tracce). Il paesaggio diviene quello cosmico del Big Bang – genesi di ogni forma di vita – e della millenaria lotta dell’uomo per la sussistenza, tra guerre, pestilenze e cataclismi. Geneticamente predisposto alla sopravvivenza, forte del proprio innato intuito e del proprio ingegno, nonostante l’avverso concorso di intelligenze galattiche che «combinano e poi scompongono l’ordine delle cose apparentemente finite, da finire o indefinite, sia nel macro che nel microcosmo», l’uomo si intuisce in grado di esplorare e colonizzare lo spazio circostante. Questo il senso delle impronte di mani e piedi che l’artista lascia sulle superfici metalliche a testimonianza del suo “essere” nel tempo e nello spazio che, a sua volta, è parte di una «escalation primordiale già in evoluzione da milioni di anni». Sulle lastre di alluminio, che simboleggia “il tempo” difficile da corrodere, l’artista appone “il triangolo”, il “chip” e la “batteria”, simboli rispettivamente dell’intelligenza dell’uomo, della tecnologia evoluta e dell’energia solare o galattica, indispensabile per la vita sulla terra e nell’universo. Su tutto, il “triangolo con l’occhio”, a rappresentare la divinità che, permeando pianeti e galassie con le sue “coordinate energetiche”, vigila, domina, programma, crea e reinventa tutto ciò che di quell’energia si nutre. Proseguendo la sua ostinata corsa per la conquista di un habitat sempre più idoneo alla propria esistenza, l’uomo commette anche dei fatali errori, di cui 2010, Marea Nera – simbolo di tutti gli oltraggi inflitti dall’uomo all’ambiente – è esempio inquietante ed emblematico. L’opera segna l’inizio del settimo periodo in cui confluiscono motivi e tecniche dei cicli precedenti arricchiti di nuovi spunti ed intuizioni. Al tema paesaggistico, già sviluppato negli anni ’80, l’artista affianca quello cosmogonico e quello naturalistico che, con la reiterazione del motivo dell’albero, limite tra cielo e terra, avvia la serie denominata “Confini” e la modalità compositiva tripartita. Il “confine”, sia esso fisico o metaforico, è insito nella natura e nell’uomo. Esiste una linea di confine tra ogni cosa e il suo opposto: tra un colore e l’altro, tra la luce e il buio, tra il cielo e la terra, tra lo spirito e la materia, tra la vita e la morte. Così come gli uomini, con il nucleo familiare, la comunità, lo stato, le leggi o le usanze, segnano il confine con i propri simili, analogamente gli animali demarcano il loro territorio. Persino le acque, nel corrodere la roccia o nello scorrere verso il mare, scavano un loro tracciato. Un confine è anche quello che delimita le sezioni dei trittici dell’ultimo periodo, sorretti da una profonda e ragionata simbologia. L’albero, filo conduttore di tutta la produzione di Di Pietro, ritorna essenzializzato, ridotto a puro elemento grafico-cromatico, ma potenziato nel suo valore semantico, nel suo rimando alla dimensione biblico-cristiana, nel suo innescarsi sulla sacralità del numero 3, simbolo della Trinità: il Padre, Dio, energia pura, onnisciente, onnipresente e primordiale, Artefice Sommo del “processo energetico nello spazio-tempo…il tutto tra l’alfa e l’omega”; il Figlio, l’uomo, essere privilegiato rispetto alle altre forme di vita, parte integrante di quel processo energetico, potenzialmente candidato a colonizzare l’universo; infine lo Spirito, quella forza creativa, emanazione del Soprannaturale Primordiale, già posta nel DNA di ogni essere, ma indirizzabile secondo natura, volontà e intelligenza. Il pensiero dell’artista in merito al ruolo dell’individuo nell’universo è lapidariamente espresso nel trittico Energia primordiale, realizzato ad olio sui due pannelli telati ai lati, e serigrafia sulla lastra di alluminio centrale dominata dal sole, ammonitore, nelle sue componenti chimiche, idrogeno (H) ed elio (He). L’uomo, colto nel suo intero processo evolutivo, esiste solo perché il sole gli fornisce quell’energia senza la quale nessuna forma di vita sarebbe stata possibile sulla terra. «Io ho quel che sei e sono ciò che hai» è il severo monito del sole che, implicitamente è anche una sollecitazione al rispetto della natura e del suo iter millenario. Nei più recenti lavori del 2010, Di Pietro ci invita a riflettere sulla contemporaneità o competizione creativa tra la natura (simboleggiata dall’albero, suo sostituto metonimico), infallibile “demiurgo” nella sua millenaria “esperienza”, e l’uomo, traslato nell’artista che crea l’opera d’arte (simboleggiato dalla spatola immersa nella materia) così come Dio ha creato l’universo. Lo stesso iter che ha spinto l’homo sapiens e faber a scoprire, inventare e conoscere, lo ha condotto a quel progresso scientifico-tecnologico che, travalicando i limiti dell’umano, è approdato alla creazione di congegni meccanici sempre più sofisticati: robot, come quello che l’artista rappresenta in Contempo Creativo A, oppure satelliti artificiali proiettati alla conquista dello spazio galattico, come quello a pannelli solari intuibile in Contempo Creativo B. Non sfugge però l’esito iconografico di quel razionale assemblaggio di parti di cellulari e altri materiali tecnologici che, forse inconsciamente, evoca la più venerata icona cristiana: una croce, a ricordare che la spinta verso il progresso, in sé apprezzabile e lodevole, non può accompagnarsi ad un reale beneficio per l’umanità e per la natura se non regolata da un imprenscidibile senso etico e da un profondo e reverenziale rispetto per la sacralità del creato.
Erminia Turilli
Erminia Turillidal catalogo Atomosfera.7, 2017.
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La vasta produzione di Bruno Di Pietro è torrenziale, mitica e metafisica, materica, figurativa e simbolica, universale e concettuale. La sua arte infatti spazia dalla cultura mediterranea a quella nordica e si salda in un nuovo ciclo di opere, ultima tentazione di sintesi: l'albero/betulla simbolo del limite, del confine di uno spazio sacro, inviolabile, metafora di contatto fra l'immanente e il soprasensibile, fra la terra e il cielo, fra il corpo e il soffio vitale, fra l'àtomos e l'aether. Nell’artista convivono il mito antico di ancestrali culture, che nel corso del tempo si sono evolute in società più complesse e articolate. Il desiderio di nuovi miti e luoghi in cui passato e futuro si fondono in nuove entità. Oltre la Terra, con la sua storia, il Cielo, un luogo da indagare, percorrere e descrivere. Dai grandi esiti raggiunti con l’Iliade e la leggenda Troiana (Milano, III e IV periodo) monumentale ciclo di lavori, iniziato negli anni ’80 fino agli anni 2005, poi a seguire con il VI periodo con temi iperspazialiste con lavori realizzati su lastre di alluminio serie: “impronte primordiali” a cui si accompagna la pubblicazione di una personale raccolta poetica “Theorein” ed.Tracce 2008, impronte lasciate dall’artista sull’opera stessa come a testimoniare la conquista dello spazio da parte di quell’homo sapiens grazie alla conoscenza della tecnologia . Da qui, passando per la coscienza del limite delle cose finite si giunge all’oggi sul crinale di un nuovo confine che assorbe tutta la riflessione attuale dell’Artista. Il motivo paesaggistico già trattato nelle opere degli anni ’70 e ’80 viene ripreso alla luce di nuove considerazioni che affrontano ancora il tema dell’universo terra e della sua creazione galattica in rapporto alle perimetrazioni, naturali e indotte, che sempre si generano sia a livello di demarcazioni fisiche sia su piano della cultura e più in generale del pensiero. L’ultimo sviluppo della sua produzione è raccolto sotto il titolo “Confini”. Si tratta di visioni intense che generano una forte emozione, espressione della piena maturazione del linguaggio di un artista che certamente ha dato molto, meritando considerazione di rilievo nella storia della pittura sia in Lombardia che in Abruzzo.
Carlo Fabrizio Carli
Carlo Fabrizio Carlidal catalogo del XLVI Premio Sulmona, 2019
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La pittura di Bruno Di Pietro, possiede alle spalle un lungo e articolato percorso che ha naturalmente registrato un altrettanto articolata evoluzione interna relativamente a tecniche e di linguaggi. Attualmente Di Pietro si applica a delle suggestive composizioni, forse sarebbe piu esatto dire associazioni, di rami che sarebbero riuscite assai gradite, penso, a un clima culturale quale quella del simbolismo tra ‘800 e ‘900 ma che, nell’artista abruzzese, sono rilette alla luce di un linguaggio e di un gusto tutti contemporanei.
Duccio Trombadori
Duccio Trombadoridal catalogo Atomosfera.7, 2017.
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Meticolosa ed eloquente sembra la parlata pittorica di Bruno Di Pietro, con i suoi strani e variopinti paesaggi curati allo spasimo, frutto di una versatile attitudine sperimentale che non si riduce all'artificio ed avvalora in modo rinnovato il nucleo originario della espressione sentimentale. Certi suoi 'alberi' trapunti col flato -per esempio- in una ripetizione sempre differente di tratto e variazione cromatica, aprono lo sguardo su scenari di spazio sospeso oltre la misura del tempo, rivelano intensità meditativa ed aprono al sentimento cosmico che si rivela alla coscienza ed al suo essere nel mondo. Di Pietro tesse una trama' fitta e variegata di enfasi visive, manipolando linguaggi e sollecitando pretesti letterari o naturali. La sua. intima vocazione pittorica prevale sul materiale di cui fa uso versatile ed approda alla costituzione di immagini salienti e suggestive capaci di salvaguardare accurate virtù formali che alimentano e potenziano lo 'spirito contemplativo'.In oltre quaranta anni di attività artistica i lavori di Bruno Di Pietro si possono classificare in sette periodi ben definiti.
Gino di Tizio
Gino di Tizioda “La Gazzetta di Chieti”, 2020
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BRUNO DI PIETRO: UN ARTISTA SENZA CONFINI. Dopo un lungo intenso percorso artistico, segnato da varie fasi, partito dal lontano 1960 ed ancora aperto a nuove esperienze, per Bruno Di Pietro, pittore e scultore con circa 4.000 lavori sparsi per l'Europa, c'è stato il ritorno ai luoghi delle sue origini dove ha lasciato subito concreti segni della sua arte, con quadri e sculture presenti sia nella sede della università d'Annunzio che presso il Palazzo di Giustizia. Chieti si vuole che sia la città di Achille, e all'eroe della mitologia greca sarà dedicato il prossimo 11 maggio l'anniversario della nascita di Teate. Ad Achille, all'Iliade, ad Omero sono dedicate molte realizzazioni dell'artista, che si possono ammirare nelle due sedi citate. L'arte di Di Pietro è segnata da vari periodi, diversificati dal modo con cui l'artista ha operato, seguendo la sua ispirazione e la spinta a cercare sempre nuove forme per esprimere le sue emozioni, i suoi ricordi, la sua visione del mondo che lo circonda. Dai cavalli, dalle figure dolenti dei pagliacci, dal figurativo della prima fase, che pure lo hanno fatto apprezzare tra i più promettenti artisti italiani, attraverso quella che lo stesso Di Pietro definisce una "odissea artistica cinquantennale, si è arrivati a nuove interessantissime esperienze, con temi di grande rilevanza sociale. Un modo per raccontare il suo intenso vissuto, le sue esperienze maturate tra Milano, Parigi, Venezia, spesso fuori dai confini italiani, per dare corpo ai suoi sentimenti, alle sue emozioni, ed anche alla sua voglia di esserci, di dire la sua, di contribuire alla vita sociale, in rispetto del suo ruolo di vero artista. C'è un episodio risalente al 1960, che racconta lo stesso Di Pietro, di un primo olio fatto su tela, per raffigurare un angolo del fiume Pescara, che lui stesso distrusse appena realizzato "spinto dalla rabbia" per non aver saputo trasmettere su quel primo quadro l'emozione che lo aveva spinto a prendere in mano il pennello. La continua ricerca, per soddisfare innanzitutto se stesso e placare il virus dell'arte che lo ha colpito, è l'elemento caratterizzante che lo distingue. Per questo i critici sono arrivati a rappresentarlo in varie diverse fasi espressive, non riuscendo mai, ed anche questo va notato, a chiuderlo in ambiti ben definiti: la sua arte che spazia libera, alla continua ricerca di idee, di temi da svolgere, di materiale e tecniche che non mostrano mai per lui confini definiti. Nemico aperto dei compro- messi, per dare soddisfazione a mercati o anche critici, ha messo la libertà di espressione, di ricerca, di raccontarsi al mondo, al primo posto nella sua vita. Scelta certamente non facile, impegnativa, ma di sicuro vincente per un artista.
Antonino de Bono
Antonino de Bonodal catalogo mostra personale alla Galleria d’arte ed antiquaria “Delle Orsole”, Milano 1971.
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L’interesse suscitato tra i cultori dell’arte contemporanea alla personale di Bruno Di Pietro, è un aspetto significativo del gusto del pubblico rivolto a rivalutare gli aspetti storici della realtà. Anzitutto va detto per coerenza, che l’arte di questo pittore non va inquadrata in una determinata corrente, come amano classificare gli artisti taluni critici che vedono nel “pingenti artifex” un essere raro da incasellare. Bruno Di Pietro è un esteta che sa sposare la realtà al sogno, giocando nei suoi dipinti su sottili rispondenze cromatiche contrapposte. La severità di espressione e l’impegno artistico, vengono contenute in una misura appropriata sàtura di sensibili allusioni al mondo naturalistico. Sovente è una vaga idea colta in trasparenza a dare il senso immacolato dell’atmosfera. Alcune rose che una bimba osserva con incantata suggestione al cospetto di un vaso in frantumi. Una donna dai lunghi capelli, che si dipanano con leggendaria furia, in mezzo ad uno sfondo inquietante e a due occhi pieni di stupore irreale; le labbra turgide irradiano maliziose sensualità, i seni gonfi paiono alludere a tensioni amorose represse. Sono emozioni che non si possono dimenticare. Anche nei paesaggi quest’aurea ricca di simboli scaturisce dal reticolato del segno. Un’imbarcazione all’alba, carica di pescatori, fluttua in un mare incantato, come se dovesse oltrepassare da un momento all’altro la linea immaginaria dell’infinito per confondersi con l’eternità. Un veliero misterioso, che par uscito dalle leggende del mitico Olonese, affronta l’ignoto pelago, oltre le colonne d’Ercole. Tutta una tecnica preziosa si dipana come un affresco graffito sui grumi spessi di materia, che resa con accortezza dal pittore, duttile, malleabile immediata. Anzi, questa immediatezza è resa vitale dal taglio della spatola che sa trovare, tra linea e colore, appassionate soluzioni pittoriche che vengono sempre contenute entro moduli compositivi misurati. Forse è proprio questo il merito di Bruno Di Pietro, l’aver saputo fondere con una accorta interpretazione personale espressionismo ed impressionismo, rifiutando ogni regola prestabilita, rendendosi conto sempre di ciò che sta accadendo attorno a lui, in modo da ritrarre il mondo sensibile a guisa di un ricordo che non si cancella mai. Per questo motivo la sua tavolozza è carica di energie; i bruni, i verdi, i marrone, sono tanti tracciati pregni di emozioni i cui contorni si perdono dietro un tessuto di toni di caldo effetto.
Antonino de Bono
Antonino de Bonodal catalogo mostra personale alla Galleria d’arte ed antiquaria “Delle Orsole”, Milano 1971.
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L’interesse suscitato tra i cultori dell’arte contemporanea alla personale di Bruno Di Pietro, è un aspetto significativo del gusto del pubblico rivolto a rivalutare gli aspetti storici della realtà. Anzitutto va detto per coerenza, che l’arte di questo pittore non va inquadrata in una determinata corrente, come amano classificare gli artisti taluni critici che vedono nel “pingenti artifex” un essere raro da incasellare. Bruno Di Pietro è un esteta che sa sposare la realtà al sogno, giocando nei suoi dipinti su sottili rispondenze cromatiche contrapposte. La severità di espressione e l’impegno artistico, vengono contenute in una misura appropriata sàtura di sensibili allusioni al mondo naturalistico. Sovente è una vaga idea colta in trasparenza a dare il senso immacolato dell’atmosfera. Alcune rose che una bimba osserva con incantata suggestione al cospetto di un vaso in frantumi. Una donna dai lunghi capelli, che si dipanano con leggendaria furia, in mezzo ad uno sfondo inquietante e a due occhi pieni di stupore irreale; le labbra turgide irradiano maliziose sensualità, i seni gonfi paiono alludere a tensioni amorose represse. Sono emozioni che non si possono dimenticare. Anche nei paesaggi quest’aurea ricca di simboli scaturisce dal reticolato del segno. Un’imbarcazione all’alba, carica di pescatori, fluttua in un mare incantato, come se dovesse oltrepassare da un momento all’altro la linea immaginaria dell’infinito per confondersi con l’eternità. Un veliero misterioso, che par uscito dalle leggende del mitico Olonese, affronta l’ignoto pelago, oltre le colonne d’Ercole. Tutta una tecnica preziosa si dipana come un affresco graffito sui grumi spessi di materia, che resa con accortezza dal pittore, duttile, malleabile immediata. Anzi, questa immediatezza è resa vitale dal taglio della spatola che sa trovare, tra linea e colore, appassionate soluzioni pittoriche che vengono sempre contenute entro moduli compositivi misurati. Forse è proprio questo il merito di Bruno Di Pietro, l’aver saputo fondere con una accorta interpretazione personale espressionismo ed impressionismo, rifiutando ogni regola prestabilita, rendendosi conto sempre di ciò che sta accadendo attorno a lui, in modo da ritrarre il mondo sensibile a guisa di un ricordo che non si cancella mai. Per questo motivo la sua tavolozza è carica di energie; i bruni, i verdi, i marrone, sono tanti tracciati pregni di emozioni i cui contorni si perdono dietro un tessuto di toni di caldo effetto.
Giorgio Falossi
Giorgio FalossiEdizioni Il Quadrato, Mialno 1986
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Una dimensione Fantastica: Bruno Di Pietro dal 1985 (inizio del III periodo) lavora alla realizzazione di opere a tema sulla guerra di Troia dai canti dell’Iliade di Omero, con una ricerca “segnico” surreale o nuova figurazione, certamente molto originale che procedendo da una minuziosa illustrazione della scena con oggetti e soggetti racchiude nel disegno scene di battaglie tra fragori di armi con colori dai toni antichi e il tutto ci porta in una dimensione fantastica. Autodidatta così preferisce definirsi, nonostante abbia frequentato l’Accademia di Brera per solo due anni, tra corsi di disegno e prospettiva. Pittore poliedrico nei lavori realizzati nel II periodo (1970/85) spaziando dalla figura al paesaggio e così all’arte sacra. Oggi l’artista ha a suo attivo un ricco curriculum bio-bibliografico conquistato con impegno e sacrifici. Da editore, critico d’arte e osservatore attento del panorama artistico milanese, posso affermare che Bruno Di Pietro con origini abruzzesi ma milanese di adozione merita certamente di essere annoverato tra le prossime grandi firme dell’arte contemporanea e di certo il suo nome sarà ricordato negli annali dell’arte contemporanea italiana e i suoi lavori saranno in permanenza tra musei e pinacoteche e di certo in collezioni private.
Sergio pancaldi
Sergio pancaldidal periodico "è", dicembre 2013
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Chi “è” Bruno Di Pietro..? Per saperlo basta curiosare, con giusto spirito critico, tra le pagine della sua bio-bibliografia ormai quarantennale dove si può scoprire nel personaggio un continuo crescendo evolutivo sia nella personalità che nel ruolo di artista. Un artista che con caparbia ricerca e instancabile impegno metodologico di tecniche e materiali è  andato con gli anni a realizzarsi tra viaggi e soggiorni da Milano a Venezia per poi approdare a  Parigi così come a Monaco di Baviera, Londra ecc. e nel suo Abruzzo. Bruno Di Pietro in questo iter e con tutto quello che ciò può comportare in spese e sacrifici è riuscito a plasmare 4000 lavori (olii, sculture, disegni, grafiche, composizioni, ecc.) tutte opere uniche ed originali e poi (impresa ancora più ardua) è stato capace di seminarli da Milano a Taormina e in diversi paesi Europei con mostre personali, fiere, premi e collettive. Il tutto è stato ed è  guidato e amalgamato da quel dono intrinseco creativo che spinge a quel sempre voler cercare, fare e comunque dare, per poi andare oltre e continuare a creare.  Per due anni frequenta l’Accademia di Brera. Artista ricercatore di tecniche, tematiche e materiali vari al fine di far vivere in maniera ben visibile e addirittura tangibile la propria idea nelle sue opere. Certamente è un artista poliedrico, ma soprattutto è un artista puro, nel senso  che vive di una propria fantasia galoppante e quindi non schiavo di mercanti e pseudo mercati. Per questo oggi come ieri i suoi lavori sono stimati da  collezionisti sia italiani che stranieri. In ogni suo periodo (attualmente siamo nel “VII”) c’è stata una ricerca combinata e concertata di tecniche e materiali vari, dal bronzo al ferro (vedi IV periodo), dal vetro, legno al plex con una intelligente padronanza del mestiere e così che ogni lavoro gli è sempre stato dettato da quel profondo senso poetico filosofico immortalato poi anche in una raccolta di poesie (vedi “Theorein” edizioni Tracce 2008). Nei versi e nei lavori di B. D. P. risulta un pensiero profondo nei confronti di quell’essere (homo sapiens) unico ed originale in quanto umano con una propria coscienza-conoscenza-intelligenza così nel rispetto di quella natura che lo circonda  (vedi VII periodo “Ai confini del creato” Ianieri edizioni, Fondazione Pescarabruzzo 2011, a cura di Simona Clementoni con testo di Armando Ginesi) corredato da un universo galattico e misterioso (vedi VI periodo).
Corrado Gizzi
Corrado GizziUn'esemplare figura di artista, Pescara 2009
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Non è facile delineare in una breve nota la poliedrica personalità di Bruno Di Pietro e sintetizzare la sua copiosa e complessa produzione artistica, realizzata in periodi diversi. Affabile sensibile ed estroso, Bruno Di Pietro è una esemplare figura di artista. In ogni periodo della sua attività egli reinvesta, si può dire, se stesso e i suoi sogni, riproponendosi come un autentico monaco, alla ricerca certosina di stesure e tecniche nuove, ma tendenti sempre al bello e al meraviglioso. E’ nota la sua noncuranza di scuderie e mercati faziosamente pilotati. Si dichiara autodidatta, anche se negli anni settanta ha frequentato l’Accademia di Brera a Milano. Dal capoluogo lombardo si è spostato successivamente a Parigi, dove ha realizzato una serie di acquerelli al latte, a Venezia, a Monaco di Baviera, St. Moritz e poi a Bruxelles: Tornato in Italia, dal 1985 al 1995, in un periodo, pari alla durata della guerra di Troia, ha illustrato o, meglio ha interpretato l’Iliade di Omero con una nuova figurazione del tutto nuova e suggestiva. Ad esso ha fatto seguito una vasta e varia produzione che va dal disegno, al collage, alla tecnica mista, all’olio alla scultura in marmo, in acciaio e in bronzo. Di notevole interesse sono il nuovo filone pittorico, di grande attualità: un inno al paesaggio del creato; e i lavori della serie Impronte primordiali, di corrente iperspazialista con riflessioni che esaltano il pensiero filosofico dell’artista e il suo amore per la natura e l’universo. Per concludere, Bruno Di Pietro è un artista che ben figura nella schiera di coloro che sanno abitare artisticamente, oltre che poeticamente, la terra.
Nicola Mattoscio
Nicola Mattosciodalla presentazione del catalogo “Ai Confini del Creato” Ianieri edizioni, 2011
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La Fondazione Pescarabruzzo, da sempre impegnata nell’individuazione e nella valorizzazione delle eccellenze territoriali, rende omaggio a Bruno Di Pietro, pittore, scultore e poeta caparbiamente ancorato alle proprie origini, ma nutrito alle sorgenti delle più fertili avanguardie degli anni Settanta e Ottanta. Insignito di presti- giosi premi e riconoscimenti, protagonista di importanti mostre personali e collettive, l’artista vanta il plauso di illustri critici e saggisti internazionali, ammaliati dalla potenza espressiva ed evocativa delle sue opere in cui estro, creatività, originalità e una qua- si maniacale cura del dettaglio si fondono in un connubio impeccabile. Instancabile sperimentatore, determinato a lasciare le proprie “impronte” nel panorama artistico contemporaneo, Di Pietro spazia dall’iniziale fase figurativo-paesaggistica, al perso- nale Impressionismo/Espressionismo del secondo periodo, alla coraggiosa e poeti- ca reinterpretazione del mito omerico, fino ad immergersi nella dimensione cosmica dei più recenti lavori dal tema iperspazialista. L’esplorazione dell’universo con il suo caos primordiale, la riflessione sui misteri della creazione e sulla competizione creativa Uomo/Natura, si innestano su una vasta ed articolata simbologia, incentrata sull’im- magine dominante dell’albero e sulla modalità operativa tripartita. Tormentato da una profonda nostalgia per il “paradiso perduto” dell’infanzia pescarese, sensibile alle più urgenti problematiche storico-ambientali, consapevole della necessità di adeguarsi alla spinta del progresso, accanto a materiali e tecniche tradizionali, Di Pietro accoglie nelle sue opere materiali di riciclo, ingranaggi, oggetti tecnologici sofisticati, “tracce” di un contemporaneo impregnato di vissuto che testimoniano la modernità di un artista capace non solo di “assecondare” il proprio tempo nella sua inevitabile evoluzione, ma anche di viverlo intensamente, sempre motivato e sorretto da un irrinunciabile senso etico e da un’incrollabile fede nella Bellezza e nella Verità dell’Arte.
Annamaura Bettucchi Malatestada: “La Mia Galleria“ ed. Annamaura M., via Nino Bixio, 3 /II periodo. Milano 1980
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Il Di Pietro è un serissimo e preparato pittore che, oltre a sfruttare la sua favolosa facoltà espressiva nel disegno-base, ha saputo inventarsi una formula nuova di vera e propria tecnica pittorica, il che gli conferisce l’autorità di caposcuola, appunto di questa tecnica paziente, puntigliosa e difficile. Dissi di lui…” una singolare atmosfera di un mondo soggettivo scaturisce dalla matericità della sua pittura ed avvolge, conturba, sgomenta, quasi come davanti ad una esasperazione cristallizzata di sogni a venire…Nel 1975 vidi per la prima volta un suo Cristo e subito pensai a Durer ed alla scuola tedesca, continuata in italia dal Von Rieger . Ebbi nella mia galleria una figura femminile, tanto esasperata da far male, bellissima, superba, che avevamo chiamato “la Contessa”, e pareva che da un momento all’altro dovesse sparire dalla tela…. Era fatale che con una tale forza incisiva e con questo temperamento, il nostro Artista si cimentasse nella…scultura! E penso che quanto prima avremo risultati positivi in questa sua nuova evoluzione di espressione.
Gian Mario Olivierida Praxis Artistica anno 5 n.1/2/3, Megalini editrice. Rimini, 1980
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Non è certamente cosa facile penetrare in quel gorgo di sensazioni che i quadri di Bruno Di Pietro suscitano. Nemmeno è agevole qualificare con esattezza tutti gli ingredienti culturali, le esperienze storiche che si affollano nelle sue tele anche perché l’artista ha saputo far suo un tale genere di patrimonio in maniera tale da conferirgli il marchio della propria personalità, cancellandone in gran parte le caratteristiche originarie ed attribuendo al proprio mondo figurativo un’impronta decisamente inconfondibile. Ci si trova perciò di fronte a un personaggio complesso il cui fascino deriva anche dal contrasto fra un’apparente semplicità di motivazioni e un polifonico accavallarsi di risonanze passate attraverso il filtro di uno spirito creatore tutt’altro che elementare nelle sue strutture interiori. Il definire con un volto di altera classicità quei personaggi femminili che, per contro, posseggono una persin felliniana carica di grottesca semplicità, il comporre con un ardimento che ci riporta alle stagioni eroiche del primo verismo, il recupero della maschera del clown quasi a simbolo dell’amara commedia che siamo quotidianamente chiamati a recitare, sono tutti fattori che ci spingono a puntualizzare quello stimolante dissidio che insiste all’interno del nostro pittore e ne fa un interprete quando mai acuto di una situazione esistenziale nella cui crisi siamo tutti coinvolti. Per fortuna sua, la pittura, come oggi altra forma d’arte possiede impensabili risorse: e son quelle che le permettono di riscattarsi, ponendo in tal caso le premesse per la redenzione di noi tutti. Colore, luce, forma, spazio sono dati dai quali si possono trarre quelle combinazioni che, trasferendoci in un mondo fantastico, ci danno della realtà una diversa misura e, pur impegnandoci, ci forniscono la possibilità di evadere con al nostra immaginazione e di crearci una verità poetica quando i casi quotidiani troppo duramente ci offendono.. Nel raggiungere un risultato derivante da uno stimolo di questo genere, Bruno Di Pietro non teme tuttavia di affrontare un discorso sorretto dall’impegno di non cedere mai alle lusinghe di un facile edonismo; quella sorta di convulsa tensione cui abbiamo accennato e che diviene un preciso riferimento stilistico ne è la più evidente dimostrazione, anche se l’artista, adempiuto ad un simile concreto bisogno di sfogare una sorta di pittorica aggressività, sa comporre tale esigenza con quella di ridonare all’immmagine una più pacata leggibilità nella quale tuttavia il suo impeto si fa segreto, si riassorbe e contiene, senza che le sue incisive qualità d’espressione ne risultino sopite.
Umberto Bultrighini
Umberto BultrighiniProfessore ordinario di Storia Greca (Università "G. d'Annunzio" di Chieti, "La Sapienza" di Roma, "Carlo Bo" di Urbino
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Ho conosciuto Bruno di Pietro nel 2002, quando stavo organizzando, per il Dipartimento di Scienze dell'Antichità dell'Università "G. d'Annunzio" di Chieti (di cui sarei stato in seguito Direttore per due mandati), il Convegno Internazionale di Studi 'Democrazia e antidemocrazia nel mondo greco' (aprile 2003). Ero alla ricerca di un apparato iconografico che fosse in sintonia col tema del Convegno e potesse rappresentarlo in modo originale, caratterizzante e di immediata percezione. Quando ho visto le opere del terzo periodo di Bruno Di Pietro (1985-1995), ispirate a versi dell'Iliade di Omero, ho capito di aver trovato quello che cercavo. I cavalli rossi di un olio su tela del 1994 coglievano e trasmettevano il senso agonale che è stato una componente strutturale della forma mentale greca, e si adattavano perfettamente alla tematica della lotta ideologico-politica nell'Atene di età classica. È stata quindi una scelta scontata, quella per la copertina degli Atti del Convegno, pubblicati nel 2005 per le Edizioni dell'Orso di Alessandria. Ma per l'occasione l'Auditorium del Rettorato di Chieti, la sede stessa del Convegno a cui hanno partecipato studiosi europei e statunitensi, è stata impreziosita da sculture in bronzo e acciaio del quarto periodo (1995-2005). La collaborazione con questo artista sensibile e generoso, di cui ho avuto modo di apprezzare la personalità garbata e arguta, da allora non si è mai interrotta (ed è destinata a prolungarsi nel tempo a venire). Così è avvenuto in occasione di altri due importanti Convegni Internazionali di Studi: 'Donne che contano nella storia greca' (maggio 2007), la cui immagine ufficiale, un'opera di Di Pietro del 1995, l'evocativa 'Elena e Paride', campeggia nel volume degli Atti pubblicato nel 2014 dalla casa editrice Carabba di Lanciano: un volume che ha avuto larga eco nel mondo degli studi sulla Grecia antica e che è da anni testo di studio adottato in corsi universitari degli Atenei di Chieti e di Urbino; più di recente, l'immagine di riferimento per un Convegno dedicato a 'Pensare giustizia tra Antico e Contemporaneo' (maggio 2018), scelta anche per il volume edito ancora per la Carabba nel 2019, è stata realizzata sulla base di un'opera del secondo periodo di Di Pietro, l'olio su tela 'Vultus Trifrons' (1980), a simboleggiare in modo efficace l'ambiguità tridimensionale della giustizia di ogni epoca. Artista raffinato e poliedrico, Bruno Di Pietro ha rivelato una capacità rara di esprimere una visione del mondo greco che superi stereotipi inveterati per attingere attraverso le testimonianze antiche la vera essenza del mondo classico, in sospeso tra perfezione di forme idealizzate e profondo realismo della forma mentale.